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16/11/24 ore

Jobs Act, la confusione copernicana a tutele crescenti


  • Antonio Marulo

Per Matteo Renzi "è una rivoluzione copernicana", per Stefano Fassina è invece "una rivoluzione conservatrice"; l'Ncd di Alfano parla di "occasione persa", mentre Susanna Camasso annuncia scioperi prossimi venturi; per contro Forza Italia bolla il tutto come un "compromesso al ribasso", ma Pietro Ichino, seppur con qualche riserva e in attesa di "importanti integrazioni", difende quella che considera comunque "una svolta".

 

Facendo così una carrellata di reazioni post-natalizie a stomaco pieno, la delega sul Jobs act, relativamente alla disciplina dei licenziamenti nei contratti a tutele crescenti, conferma quanto il legislatore anche questa volta abbia fatto il solito capolavoro, presentando una normativa priva del necessario tratto distintivo costituito dalla semplicità, per cui sono lecite le più svariate interpretazioni di segno opposto. E ciò a partire dall’interno della stessa compagine governativa, come dimostra ad esempio il botta e risposta Madia/Ichino sull’estensione delle nuove regole ai dipendenti statali.

 

Per la giovane e maldestra ministra della ex-Funzione pubblica questi ultimi sono esclusi dal campo di applicazione, perché accedono mediante concorso; mentre il professore Ichino che in prima persona si è occupato della delega - richiamando dal canto suo il testo unico dell’impiego pubblico nella parte in cui stabilisce “che, salve le materie delle assunzioni e delle promozioni, che sono soggette al principio costituzionale del concorso”- , precisa che “per ogni altro aspetto il rapporto di impiego pubblico è soggetto alle stesse regole che si applicano nel settore privato”.

 

Ma la diversità di vedute intra-governative non si fermano qui e si allargano al ministero del lavoro, che poi è quello – in teoria - direttamente investito della materia. Sempre Pietro Ichino tramite il suo blog informa del cambio di direzione che negli ultimi tempi avrebbe caratterizzato le mosse del ministro Poletti.

 

“Il 23 dicembre – racconta il senatore di Scelta civica - la bozza predisposta dal ministero del Lavoro per essere presentata al Consiglio dei Ministri il giorno dopo era stata inopinatamente arricchita di due articoli (poi defalcati prima delle presentazione del testo ndr). Uno di essi era mirato a modificare incisivamente la disciplina dei contratti a termine contenuta nel decreto Poletti del marzo scorso, tra l’altro riducendo da 36 a 24 mesi il periodo di durata complessiva massima dei rapporti a tempo determinato”.

 

“Sarebbe stata, questa – sottolinea Ichino -, una singolare proposta da parte del ministro, che avrebbe lanciato un messaggio rovinoso agli investitori economici: ‘non fidatevi delle nostre nuove leggi, perché entro la fine dell’anno potremmo decidere di cambiare strada, di tornare indietro’. L’altro articolo era dedicato – niente meno – a sopprimere di netto i contratti di associazione in partecipazione, di lavoro intermittentee di lavoro ripartito (il c.d. job sharing): con la conseguente prevedibilissima perdita di decine di migliaia di posti di lavoro soprattutto nei settori del commercio, del turismo e dello spettacolo”.

 

I retroscena svelati da Ichino dimostrano e confermano quanto già si intuiva sul braccio di ferro tuttora in corso all’interno della maggioranza, e non solo, tra due scuole di pensiero contrapposte che ha comportato la classica mediazione complicativa della legge delega. Sempre Ichino, nelle sue riflessioni "a caldo", ha fatto riferimento alla “mano di un estensore evidentemente ostile” che in alcuni casi è riuscito nell’intento di annacquare la riforma, come nel caso dell'impossibilità per il datore di lavoro di optare per il super indennizzo in luogo dell'eventuale obbligo di reintegro intimato dal giudice.

 

Alla fine, leggendo e decodificando il testo di legge, si ha la netta sensazione che gli unici davvero soddisfatti possano essere, da un lato, i giudici del lavoro - al cui giudizio (ancora troppo discrezionale) sono demandate la decisione sulla legittimità dei licenziamenti - e dall’altro, la lobby commercialista e giuslavorista degli studi professionali, la cui opera al servizio delle imprese risulterà maggiormente necessaria per districarsi nella giungla contrattuale, arricchita da febbraio di un nuovo mostriciattolo che lascia irrisolti alcuni nodi fondamentali.

 

A partire dai cosiddetti dualismi. A quello odioso ormai noto tra vecchi assunti (per i quali resterà la legislazione vigente in tema di articolo 18) e i nuovi assunti a tutele crescenti, vanno infatti a tal proposito segnalati almeno un paio di singolari effetti collaterali della riforma.

 

Il primo riguarda in origine le imprese con meno di 15 dipendenti, per le quali resta esclusa l’applicazione dell’art. 18: se queste, per effetto di assunzioni a tutele crescenti, dovessero superare il limite fatidico, sarebbero comunque esentate dall’applicazione dell’articolo 18, per cui ci si troverebbe di fronte a imprese con più di 15 dipendenti senza articolo 18 contrapposte ad altre con dipendenti assoggettati alle tutele tradizionali che vietano il licenziamento senza giusta causa.

 

Il secondo caso strano potrebbe emergere con i licenziamenti collettivi, ai quali è stata estesa, nel disappunto di ampi strati della sinistra anche governativa, la nuova disciplina oggetto della delega. Possiamo infatti immaginarci il casino che potrà emergere nell'ipotesi di un licenziamento collettivo di lavoratori appartenenti alle due tipologie contrattuali a tempo indeterminato, con tanto di ricorsi, di impugnazioni e di proteste: perché ad alcuni andrebbe in teoria applicata la normativa a tutele crescenti, mentre ad altri quella garantita dall’articolo 18.

 

Insomma un bel daffare, che confermerebbe - fermo restando che non intervenga nell’iter ancora in corso qualche altra manina malefica per imbrogliare ulteriormente le cose - come non sia solo una calembour titolare “confusione copernicana”.

 

P.S. 

Non appena pubblicata questa nota, le agenzie battevano la seguente dichiarazione rilasciata ad Affaritaliani.it del ministro Poletti:  "il Jobs Act non vale anche per i lavoratori del pubblico impiego, «perché tutta la discussione sulla legge delega è stata fatta sul lavoro privato e quindi non è applicabile al pubblico impiego». In questo modo Poletti smentisce quanto sostenuto dal giuslavorista Pietro Ichino, che ha contribuito alla stesura del testo. «Se si vuol discutere del lavoro pubblico in Parlamento c’è una legge delega sulla Pubblica Amministrazione», aggiunge il ministro. Il che non fa altro che suggellare la confusione imperante. Amen

 

 


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