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20/01/25 ore

Giorgetti e il nulla che ti premia


  • Antonio Marulo

A Giancarlo Giorgetti è bastato non creare ulteriori danni per meritarsi il premio di ministro delle Finanze dell’anno della rivista «The Banker», il mensile di affari internazionali del prestigioso «Financial Times».

 

In prima lettura, il sospetto che la notizia fosse una fake news sarà venuto a tanti, forse anche al diretto interessato; e invece no: il «Financial Times» ha voluto lodare davvero  “il lavoro ingrato” di Giorgetti, sottolineandone l’impegno “nel ridurre il crescente deficit in Italia e nel sostenere gli investimenti pubblici, con un piano a lungo termine volto a ridurre l'imponente rapporto Debito-Pil". 

 

Solo che “nel lungo periodo saremo tutti morti”, se nel breve termine si seguono le solite logiche che scassano i conti. 

 

La legge finanziaria senza infamia e senza lode del 2024 è stata probabilmente l’ultima occasione (persa) per approvare qualche misura impopolare ma necessaria, perché la prossima manovra avrà già orizzonti elettorali, con tutto quel che ne deriva.

 

Ciò che caratterizza in negativo l’economia italiana è noto e resta intatto. Lo ha ricordato anche il «Financial Times»: “una crescita lenta, la bassa produttività, l'elevata evasione fiscale e uno dei più onerosi debiti pubblici al mondo”. 

 

E allora, che fare (a parte il nulla che ti premia)?

 

Invocare la motosega di Milei forse è troppo, oltre che velleitario; ma in un’alternativa credibile si dovrà pure sperare.

 

Il 30 dicembre scorso, Angelo Panebianco suggeriva una via intermedia fra due estremi, che “consiste nel liberare l’economia dai troppi lacci e lacciuoli che la frenano, affermare e difendere il principio di concorrenza tramite una azione dello Stato che elimini o riduca le troppe rendite monopolistiche, fare in modo che lo Stato si concentri sulla produzione di quei beni pubblici (sanità, istruzione, difesa, eccetera...) che non possono essere forniti dal mercato”.

 

In poche parole: il liberalismo economico secondo Einaudi, che la classe politica italiana, di destra o di sinistra, peraltro non si sogna di considerare. Il perché lo spiega sempre nel suo articolo Panebianco: “larghe parti del Paese accettano di buon grado restrizioni che frenano la libertà di iniziativa in cambio di protezione statale”. 

 

La nostra società fintamente capitalistica e poco dinamica, vissuta perlopiù di debito pubblico e di buone relazioni, non gradisce infatti un sistema nel quale non esistono rendite di posizione e ci si deve riguadagnare ciò che si detiene investendo continuamente il proprio patrimonio; preferisce che l’interventismo statale si perpetui e conservi la distribuzione già in atto dei beni tra chi li possiede. Di questo i governi che si susseguono da anni sono consapevoli e agiscono di conseguenza. 

 

Per parte sua, l’Esecutivo Meloni si è limitato fin qui a un’azione di contenimento del debito, senza un solo intervento strutturale che inverta la tendenza; mentre sul fronte dei cosiddetti lacci e lacciuoli sopra citati non ha tradito le attese, quando si è presentata l’occasione. 

 

Il rinvio continuo delle gare sulle concessioni ai balneari, la condiscendenza con i tassisti, i bastoni fra le ruote posti con la nuova normativa al trasporto Ncc, le norme e i cavilli che via via ci si inventa per ostacolare gli affitti brevi hanno confermato infatti un approccio sostanzialmente dirigista e illiberale, che accontenta le categorie via via protette, non agita la massa indifferente e per giunta non crea particolari attriti con le l’opposizioni in Parlamento.

 

Arrivati al dunque, in economia il nemico è comune: il mercato.

 

 


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