Impotenza e velleitarismo sono il retro e volta di partiti e leader italiani. Non si tratta solo del proverbiale “mare” che separa il dire dal fare. Il problema merita di essere brevemente esaminato sia sotto il profilo temporale, che per quello che attiene ai caratteri sostanziali degli schieramenti in lizza nel prossimo confronto elettorale che – prima o poi – dovrà pur esserci a quattro anni dalla sospensione tecnico-emergenziale intervenuta nel 2011 e non risolta dal voto del 2013.
Cominciamo da Berlusconi e dal centro-destra, così come si è espresso dal 1994 ad oggi. Ha incarnato il passaggio alla cosiddetta “seconda Repubblica”, definitasi dopo il tracollo dei partiti di governo della prima con la fine dell’ordine post Yalta. Cavalcando l’anti-politica fermentata nella stagione di Mani pulite, che scardinò il pentapartito facendo leva sul solo biennio (1990-91) scoperto dal condono relativo al finanziamento illecito, Berlusconi si è proposto in Italia come il propugnatore di una “svolta liberale” sulla scia del decennio reaganiano. Promessa clamorosamente mancata, non tanto e solo per gli ostacoli frapposti dalle note vicende giudiziarie, quanto per l’oggettiva natura consociativa che contraddistingueva la sua azione in economia e politica.
La stessa coalizione messa in piedi dal Cavaliere era fortemente intrisa di derive stataliste che, certo, mal si conciliavano con un convinto rivolgimento in senso liberale della società nazionale. Del resto, anche il lascito più consistente di questa stagione – vale a dire l’alternanza al governo di differenti coalizioni politiche (1995-2001 centro-sinistra; 2001-2006 centro-destra; 2006-2008 di nuovo centro-sinistra, per finire col triennio 2008-11 ancora di centro-destra) – non ha corrisposto a un reale ricambio di blocchi sociali e relativi interessi, rimanendo la gestione di governo e delle istituzioni all’identica melassa corporativa ereditata dal fascismo e riciclatasi nella partitocrazia repubblicana.
Se poi guardiamo al centro-sinistra, il primo dato da evidenziare è il suo riagganciarsi agli anni Settanta del secolo scorso. Aggregatosi attorno all’ex Pci, questo schieramento ha evitato con cura di affrontare la “questione liberale” prescindendo anche dal benché minimo accenno a una svolta di stampo blairiano o socialdemocratico, per proporsi come una riedizione in formato ridotto del compromesso storico. Un’opzione oggettivamente fuori del tempo e inadatta alle necessità che premevano nel Paese, che non richiedevano affatto il rinnovo del patto sindacal-burocratico-corporativo fondato sui pilastri della concertazione e della spesa pubblica incontrollata, alimentata attraverso una vessazione fiscale che scoraggia impresa e libero mercato.
Caratteri che non sono venuti meno neanche dopo l’opa lanciata sul Partito Democratico da Matteo Renzi: divenuto presidente del Consiglio per investitura del Capo dello Stato, questi ha sì dato una spallata al pan-sindacalismo, ma per prefigurare soltanto una riedizione del dossettismo di La Pira e Fanfani. Lo stesso che, come si vede in una memorabile scena del film di Rosi “Il caso Mattei”, fa dire allo storico sindaco di Firenze che il salvataggio da parte dell’Eni di un’azienda ormai decotta è voluta da Dio… Prospettive che mal si conciliano coi tempi odierni, nei quali la scappatoia delle svalutazioni è preclusa, al pari di ogni velleità di sviluppo alle condizioni date di un’iniziativa imprenditoriale interna tendente a sdraiarsi sul divano anziché proiettarsi verso nuovi orizzonti.
Tra promesse mancate e promesse destituite persino di un minimo di credibilità, i principali soggetti politici si dibattono in uno stato di sostanziale immobilismo cinetico, dov’è tutto un saettare di petardi che il giorno dopo lasciano solo scie cinerine. Mentre per il terzo tempo della nostra malandata Repubblica si annuncia l’avanzata del movimento di Beppe Grillo, il quale tuttavia di recente sembra mettere le mani avanti e quasi allontanare il potenziale consenso con espressioni apocalittiche e scenari drammatici. Quasi che abbia consapevolezza del fatto che sul risentimento e sul giustizialismo di cui sono portatori i suoi attivisti, è ben difficile costruire qualcosa che sia lontanamente simile a una classe politica.
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