“Adesso basta: abbiamo il dovere di tutelare i militanti del nostro partito. Ci vediamo in tribunale, caro pregiudicato Grillo (…) Grillo è un pregiudicato e conosce bene cosa significa essere condannati ma evidentemente non se lo ricorda. Le sue dichiarazioni contro il Pd hanno decisamente passato il segno”. Con questo paio di twitter, com’è ormai indecorosa consuetudine della comunicazione politica, il segretario amministrativo del Partito Democratico, Francesco Bonifazi, ha annunciato la querela contro il leader del Movimento 5 Stelle.
Va notato l’animus che ispira l’iniziativa del tesoriere, che emerge dal suo pregustare il fatto che Grillo, in quanto già condannato, non potrà godere della condizionale e quindi – se perdente nel processo – finirà in carcere (“… ma evidentemente non se lo ricorda”). È indicativo come, da parte del PD, si manifesti sempre più spesso l’insofferenza per gli oppositori e si ricorra (non è la prima volta) alla risoluzione del contrasto politico per via giudiziaria. Una tendenza la cui matrice culturale è più quella della fatwa, che non la società aperta cui si proclama di ispirarsi a parole.
Tanto più che in questo caso la dichiarazione di Grillo, che ha suscitato questa reazione, ha poco a che fare con le invettive alle quali egli ricorre nei comizi. Riferendosi allo scandalo dell’emendamento della legge di stabilità, con il quale si dava il via libera all’appalto per l’estrazione di petrolio da parte della Total, Grillo ha ricordato come i senatori del M5S lo avessero contrastato, evidenziando già un anno fa il suo carattere di “favore” per le persone coinvolte nell’affare. Quando sostiene che “la Boschi, il Bomba [Renzi], tutto il Governo e tutti i parlamentari Pd e Ncd sapevano” fa un’affermazione apodittica e sarebbe davvero una pretesa contestarlo, dal momento che tutto si è svolto in pubblico nelle aule parlamentari.
Del resto, proprio il ministro dei Rapporti con il Parlamento ha rivendicato che, anche adesso che sono state rese note le intercettazioni dell’ex ministro Guidi con l’imprenditore Gemelli, approverebbe comunque quell’emendamento che giudica strategico per lo sviluppo energetico del Paese. E lo stesso presidente del Consiglio, pur deplorando sul piano dell’opportunità il comportamento del ministro dimessosi, ribadisce la liceità dell’azione governativa.
Solo che il problema va visto sotto un altro aspetto. Probabilmente scopriremo che quanto è avvenuto non comporta davvero alcun illecito, ma è l’andazzo generale che non convince affatto.
Questa vicenda, al pari del salvataggio pilotato della Banca Etruria, fa percepire che l’insieme dei provvedimenti presi non rispondono – come sempre capita – a salvaguardare degli interessi, che pur se di parte hanno comunque ricadute generali, ma muovono in primo luogo da un intreccio di relazioni (familiari, amicali e quant’altro).
E sempre più si ha l’impressione che il viluppo di questo intreccio occupi non solo le posizioni di potere, ma le menti stesse di chi si propone all’esterno come un innovatore. Più che una molla volta a favorire il cambiamento, questo è sicuramente un ostacolo.
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