Non c’è dubbio che con Tito Boeri all’Inps non poco sia cambiato, almeno nell’approccio ai problemi in materia di pensioni. Se non altro, lo scenario catastrofico per le generazioni future, da tema astratto, tutt’al più evocato come spauracchio a fini di propaganda nei dibattiti sterili dei talk tv, ha preso le forme concrete dei numeri calcolati sulla base di proiezioni plausibili come da legge Fornero. Si è cominciato, insomma, a guardare le cose in faccia, approcciando alla questione con una visione di medio-lungo periodo, in previsione di correggere la rotta di una nave destinata altrimenti al naufragio.
Tuttavia, non tutti sono contenti di come il presidente dell’Istituto sta gestendo l’aspetto comunicativo. E non è un caso, forse, che a lamentarsi della diffusione dei dati sul destino che aspetta la Generazione 80 siano proprio i vertici del maggiore sindacato italiano, che non poche responsabilità ha avuto nelle scelte di politica previdenziale, tutt’altro che lungimiranti, che via via sono state assunte negli decenni, prima che il Governo Monti intervenisse con l’accetta sotto i colpi dello spread.
In particolare, Susanna Camusso avrebbe preferito che si continuasse nel raccontare balle per non turbare i sogni giovanili: perché “proporre in questo modo la previsione di pensione a 75 anni è irragionevole e rischia di passare un messaggio pericoloso di sfiducia ai giovani". Come se la sfiducia non fosse già presente, anche per colpa di chi fino all’altro ieri ha lavorato, e molto bene, per difendere legittimamente gli interessi dei propri assistiti, scaricando però sulle generazioni future il fardello di un sistema insostenibile ancorché vantaggioso. Del resto, la categoria del pensionati costituisce il bacino d’utenza determinante sul quale il sindacato fa leva, dopo l’erosione del consenso fra i lavoratori. Difenderne quindi gli interessi rimane tuttora prioritario.
Per questo le critiche di Camusso non sorprendono, essendo figlie di una certo timore per il tipo di interventi allo studio, che potrebbero intaccare qualche diritto acquisito. Se fosse per i sindacati, infatti, bisognerebbe sempre, come in passato, trovare il modo per avere la botte piena e la moglie ubriaca, magari rinviando sine die il problema, nella speranza - chissà - che piova un giorno la provvidenziale manna dal cielo.
E invece si discute in questi giorni sul che fare e trapela, fra l’altro, l'intenzione di un bilanciamento tra chi ha avuto troppo e chi non avrà nulla o quasi (fermo restando i costi anche per lo stato). Così, chi vuole andare in pensione prima del tempo potrebbe dover rinunciare a qualcosa, dopo aver ottenuto un aiuto sotto forma di prestito; chi ha un assegno più pingue dovrà forse contribuire “donando” a titolo generazionale.
In proposito, è nota la posizione sindacale: le pensioni non si toccano, comunque e a prescindere. Fra i motivi maggiormenti addotti c'è il fatto che i pensionati stanno svolgendo una vitale funzione di assistenza sociale, sostenendo figli e nipoti in difficoltà. Ruolo per carità meritevole, ma che eventualmente andrebbe in qualche modo sostituito da altri tipi di interventi “riparatori”, casomai più produttivi per il Paese e maggiormente gratificanti per chi subisce l’umiliazione di ricevere la “paghetta” della nonna.
A meno che non si voglia assecondare l’andazzo da paesi di vecchi e per vecchi quale è diventato l’Italia, dando retta anche allo slogan per la campagna di tesseramento 2016 dell Cisl che, in modo inquietante e deprimente, recita :“ripartiamo dai pensionati”!
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