Dal confronto sugli esiti del referendum del 23 giugno che ha portato all’uscita dall’UE del Regno Unito, vanno dipanandosi tre nodi problematici di grande rilevanza in questi anni. Il primo riguarda, evidentemente, il futuro dell’Europa dal punto di vista sia della prospettiva politica, che delle conseguenze sulla prosecuzione del processo iniziato con l’istituzione dell’euro.
L’unità dell’Europa consisteva nel dar vita a un soggetto politico capace di porsi sullo stesso piano delle grandi potenze internazionali. Dopo i decenni del bipolarismo tra USA e URSS, con il dissolversi dello Stato sovietico, premeva la necessità di prefigurare una nuova mappa del mondo. In tale contesto, all’Europa si apriva una strada che – potenzialmente – poteva condurre a mète elevate, capaci di dare corpo all’idea di un governo equilibrato e illuminato. Perché ciò potesse accadere, tuttavia, era indispensabile agire da protagonisti sulla scena internazionale e non da comprimari.
Purtroppo così non è stato e, a causa del permanere delle divisioni e degli interessi di parte degli Stati-nazione, si è finito per assumere un ruolo oscillante per lo più al seguito delle iniziative promosse da altri, che fossero gli Stati Uniti o il mondo islamico col quale si è adottata una politica di appeasement assai poco producente, che trascurava in modo colpevole la difesa dei fondamenti della civiltà liberale e dei diritti della persona.
Sotto questo aspetto la fuoriuscita della Gran Bretagna non fa che apporre l’ultimo sigillo al sostanziale fallimento dell’Europa politica. Mentre dal punto di vista economico, al di là delle turbolenze speculative di queste prime settimane, è improbabile possa avere ulteriori effetti. Anche perché, obiettivamente, il ruolo giocato dagli Inglesi riguarda per lo più la sfera dei servizi che non quella produttiva e com’è noto oggi i servizi sono ampiamente intercambiabili. Né si può dar torto a quanti ritengono la secessione inglese come un’opportunità per riconsiderare molti degli assetti che hanno fin qui bloccato i termini di un proficuo confronto tra i Paesi dell’euro, magari schiudendo una stagione contraddistinta da una maggiore cooperazione finalmente libera dalle tentazioni di una supremazia, tanto velleitaria quanto poco lungimirante.
Un secondo ordine di questioni emerso dalla discussione sulla Brexit verte attorno al comportamento dei media e alle contraddizioni di certe reazioni. Da parte di chi fino al giorno prima era il corifeo della critica alla globalizzazione, dell’UE vista solo come il terminale della grande finanza, della ribellione dei cittadini allo strapotere delle multinazionali e delle banche, si è avuta un’improvvisa recrudescenza contraria alla libera decisione dei britannici di separarsi dal resto dell’Europa e dal sistema di norme vincolanti sino a poco prima criticate aspramente.
Una palese contraddizione che fa il paio con l’altro tipo di reazione, ancor più assurda, di quanti – testardi fautori di comportamenti e norme che sono la prima causa del fallimento europeo – pretendono di negare ai cittadini la possibilità di esprimersi, quasi che solo a una ristretta élite, priva fra l’altro di un’adeguata investitura democratica, possa spettare l’esclusivo diritto di determinare il futuro dei popoli. Una posizione che non è altro se non il riciclaggio di merce avariata come la pretesa superiorità delle avanguardie rivoluzionarie rispetto alle masse.
D’altro canto, la pretesa di escludere dalle scelte politiche i cittadini comuni non è espressa soltanto dagli esponenti di quella nomenklatura, prima responsabile della trasformazione dell’ideale spinelliano in una distopia da scongiurare, ma affiora anche presso opinionisti e intellettuali che esprimono dubbi sulla praticabilità della democrazia nei tempi moderni. Ora, cominciare a contestare che il libero voto possa portare a esiti nefasti o quanto meno rischiosi, significa impostare in modo erroneo un problema che pure esiste.
Infatti, più che sottrarre il diritto di voto alle masse sarebbe opportuno operare affinché l’informazione svolga compiutamente il suo ruolo, realizzando le condizioni del “conoscere per deliberare”. Purtroppo, non pare che nell’informazione si delinei la consapevolezza dei guasti provocati da un giornalismo che viene meno alla sua funzione e preferisce indossare divise anziché informare correttamente.
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