Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

13/11/24 ore

PD: direzione n. 31


  • Silvio Pergameno

La direzione del Partito Democratico dello scorso 9 ottobre è da poco terminata: i leader della minoranza escono corrucciati, terrei in volto, non hanno formulato alcuna proposta di merito di fronte all’offerta di Renzi  di una Commissione per discutere dell’Italicum dopo il referendum, anche se Roberto Speranza la ha di fatto demolita, sostenendo che la Commissione deve riunirsi subito, perché la proposta deve uscire dal PD.

 

Clima assai teso, riemersa la terribile parola “scissione”, anche se non c’è stato passaggio ai fatti. E infatti in qualche intervento degli avversari del Segretario è affiorato un dato profondo, in particolare in quello di Cuperlo: il PD ha perduto la dimensione comunitaria, è venuta meno l’identità… E non si è mancato di rilevarne la conseguenza più visibile: i compagni se ne vanno…

 

Una prima considerazione – personale.  Sarà un problema mio, ma, quando l’identità viene fuori, subito mi preoccupo, perché l’identità è la fonte delle chiusure, degli estremismi,  dei fanatismi e alla fine dei totalitarismi, se ad essa non si contrappone un antidoto poderoso, uno spirito critico che non arretri, se il dato costitutivo di una forma associata, e in questo senso identitario, non sia ritrovato e definito nella libertà, nella democrazia liberale, nella convivenza tra diversi.

 

Però, detto questo non si può non osservare, senza malanimo, che se l’identità è perduta e soprattutto che se il PD non ha trovato un nuovo riferimento nella costruzione di un partito nuovo e nella tendenza a diventare il luogo di tutta la sinistra, la  ragione di questo percorso deludente la si trova proprio nella storia del PD medesimo, nelle premesse e nel corso dei fatti.

 

È una storia è lunga. Certo ci si può dire che proprio nel PCI ancora quarant’anni fa emergevano le prime discussioni sulla necessità di innovazioni nel partito, che proprio Enrico Berlinguer se ne era fatto portatore, che la sconfitta nel referendum sulla scala mobile del 1985 aveva aperto un dibattito sul centralismo democratico, sul riformismo, su un “partito democratico del lavoro” e che Occhetto aveva avviato un percorso operativo  alla Bolognina il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, poche parole nel corso di un  intervento breve, ma in una circostanza significativa: quella della celebrazione del  45° anniversario della “Battaglia di Porta Lame”  (quando nel novembre 1944 partigiani bolognesi avevano affrontato uno scontro molto duro con tedeschi e militari della RSI).

 

Si era avviato il percorso che doveva  portare nel marzo del 1991 alla chiusura del PCI, cui era seguito il processo culminato alla fine nella fondazione del PD, attraverso le vicende dell’Ulivo (che però si articolò soprattutto in iniziative di carattere elettorale) e poi della Margherita, nella quale erano stati coinvolti esponenti di formazioni di un ampio spettro della sinistra e anche non della sinistra, come ad esempio Valerio Zanone, anche se alla fondazione erano presenti circa 175 ex democristiani e solo una decina di ex socialisti e altrettanti ex comunisti  e ancora meno ex repubblicani  e, se non erro, nessuno socialdemocratico. All’insegna del riformismo, come minimo comune multiplo…

 

Ma quel che occorre qui sottolineare è proprio il fatto che su questa strada si è proseguito fino alla fondazione del PD nel 2007: una convergenza nella sostanza tra DS e quella che era stata la sinistra democristiana, l’ultima manifestazione di una lunga linea politica, che si era aperta nel dopoguerra e che arieggiava alla politica dei fronti popolari ed era il fondamento della via italiana al socialismo, imperniata da Togliatti nel dialogo con i cattolici, nel quale si sarebbe realizzata l’unità di tutte le forze popolari, il blocco storico di comunisti, socialisti e, per l’appunto, proprio i cattolici… 

 

La strada percorsa nei fatti non era stata però entusiasmante, perché la DC, se non la aveva contestata, la aveva accettata soltanto per i vantaggi che ne potevano venirle, a cominciare dal riferimento esplicito contenuto nella costituzione al concordato del 1929 col Vaticano  per regolare i rapporti tra Stato e Chiesa, che per la DC era fondamentale  (perché la DC dossettiana non era il Partito Popolare di Sturzo…) e poi alla DC era indispensabile tenere buoni i comunisti e intanto portare avanti giorno per giorno  il partito della gestione fanfaniana.

 

E il dialogo con i cattolici, o meglio i suoi sviluppi, portavano il PCI – tanto per esemplificare - prima a voler tenere nel cassetto i progetti socialisti per il divorzio (fino a quando i radicali di Marco Pannella non fecero esplodere la situazione),  e poi con Berlinguer a esautorarlo del tutto nel fallimento del compromesso storico , un’operazione politica che non era nemmeno ispirata a un disegno storico, come agli inizi, ma un tentativo per portare il PCI al governo.

 

Tutto questo spiega perché la mancata discussione su questo percorso abbia impedito la costruzione di un PD veramente nuovo, spiega perché il problema non sia stato nemmeno avvertito, perché la sonora batosta presa dalla DC nel referendum del 1974 (il divorzio sia stato approvato dai 60% dei cittadini) non abbia aperto la testa a nessuno nel PC I e perché si sia stancamente proseguito in un riformismo un po’strano, per il quale il divorzio possa essere stato considerato un lusso borghese e non un diritto civile di massa. In assenza di una cultura liberale, che ha invece giocato un ruolo di rilievo in quei riformismi che, con vari nomi, governano in molti paesi europei, come scrive ad Ezio Mauro che su Repubblica dell’11 scorso.

 

Si tratta di un complesso intervento sulle questioni qui discusse. E anche Mauro è preoccupato per la perdita di identità nel PD, di un PD riformista come “sinistra di governo  moderna e occidentale, innervata dalle due grandi tradizioni socialcomunista e cattolico-democratica” e che oggi viene apertamente messa in rottamazione “come se il renzismo fosse una forma politica nuova e non una legittima interpretazione della forma-partito che esisteva prima e che – almeno in teoria – dovrebbe esistere anche dopo.

 

Già la forma-partito, che è proprio uno snodo che sta dietro lo scontro sul referendum di dicembre, tra un partito di massa, tendenzialmente onnicomprensivo totalizzante e un partito strumento che non ha un’ideologia, ma dei principi cui ispirare la sua azione, che non è un partito/mamma ma un partito di cittadini dei quali interpreta la domanda politica, ma che si fa anche carico dei problemi generali di un paese e tende a selezionare una classe dirigente. Quello di cui noi radicali si discusse alla fine degli anni sessanta.

 

E a questo punto si apre un nuovo discorso che eccede i limiti di queste considerazioni, così come quelli assai gravi che costellano la storia dei riformismi nazionali…

 

 


Aggiungi commento