Non capita di rado che dal PD si lancino accuse di “volgari strumentalizzazioni” agli avversari politici. Ne hanno fatto le spese Salvini e Grillo in primo luogo. Spesso, tuttavia, la pratica ricorda da vicino il proverbio del bue che dice cornuto all’asino.
Prendiamo il caso di Pierluigi Castagnetti, ad esempio: di recente ha evocato la possibilità di un rinvio del referendum del 4 dicembre, giustificandolo con il terremoto in Umbria e Marche. Si chiede l’ex segretario del Partito Popolare: “Le anagrafi comunali sono operative? Non credo esistano le condizioni per andare alle urne in quei luoghi”. Ora non è certo la prima volta che un appuntamento elettorale si svolge in prossimità di un evento catastrofico.
Il terremoto del Friuli avvenne il 6 maggio 1976, a poco più di un mese dalle votazioni politiche del 20 giugno, che furono tra le più combattute tenuto conto che si giocavano sulla possibilità di un “sorpasso” da parte del PCI. Nessuno fu sfiorato dall’idea di un rinvio e, all’epoca, la situazione della protezione civile in Italia non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella odierna, oggi ben più collaudata.
Un’ipotesi, dunque, assolutamente strumentale spacciata come preoccupazione per l’effettivo esercizio del diritto di voto dei terremotati. Sulla quale si è fiondato il ministro dell’Interno che, more solito, si distingue nello svicolare ogni responsabilità e dichiara che tale richiesta di rinvio meriterebbe di essere presa in considerazione, “qualora una parte dell’opposizione fosse disponibile”.
Che Angelino Alfano voglia esercitarsi a fare lo stratega politico, sfruttando l’occasione del terremoto per lanciare messaggi politici all’opposizione cosiddetta “moderata” sfiora pericolosamente il senso della decenza politica. Forse consapevole della natura assolutamente indifendibile di tali prese di posizione, Palazzo Chigi ha pensato bene di dissipare ogni dubbio, escludendo recisamente che si stesse vagliando un qualunque rinvio del referendum.
Va detto, a questo punto, che questi boatos sono in parte il risultato della percezione che la contesa referendaria ha perso molta della sua iniziale rilevanza. Averne fatto la “madre di tutte le battaglie” ad alcuni sembra essere stato un errore e, di conseguenza, affiora la volontà di decantare la cosa, quasi manzoniamente di “troncare e sopire” un appuntamento che – in effetti – ha ben poco di epocale.
Specie se si pensa che questo del 4 dicembre è il terzo referendum confermativo su una riforma costituzionale in meno di quindici anni, dopo quelli del 2001 e del 2006: il primo passò e ci regalò il caos della riforma del Titolo V sui rapporti fra Regioni e Stato centrale, mentre il secondo bocciò la devolution e respinse quella riduzione di deputati e senatori, che oggi sembra invece pilastro portante della riforma Boschi.
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