La sensibilità umana e professionale di Umberto Veronesi è racchiusa in un gesto, un accordo raggiunto con una delle sue tante pazienti. Quelle dieci sigarette al giorno, che, «con un sorriso ma obtorto collo», le permise di continuare a fumare nonostante la malattia, nonostante l’aperta guerra al tabagismo da lui condotta in veste di Ministro. Emma Bonino ha raccontato così il professore di Milano nell’intervista rilasciata a Repubblica all’indomani della sua morte.
Scienziato brillante e rivoluzionario, pioniere della chirurgia conservativa del seno, ma anche medico tollerante, rispettoso delle debolezze altrui, attento alle fragilità del malato. «Io non sono il mio tumore» ha ripetuto continuamente la leader radicale nel corso di tutte le fasi della terapia, prima che potesse annunciare la sconfitta «dell’antipaticissimo signore». Un modo di affrontare il cancro senza offuscare la persona di prima, con il suo mondo, «la sua libertà, i suoi interessi e affetti». Patrimonio inviolabile da preservare e proteggere. «Umberto ebbe per me parole fin troppo di elogio,(…) apprezzando quel che dicevo» ha confessato la Bonino. Si rivolse all’oncologo in quanto illustre esperto, ma soprattutto compagno di battaglie civili.
Ѐ lungo l’elenco. Teorico dell’eutanasia come atto medico di pietà, del diritto inalienabile a una morte dignitosa, del testamento biologico per risolvere il dramma degli stati vegetativi irreversibili, promotore di una “cultura del dolore” e convinto dell’inutilità della sofferenza del paziente, seguace di un’idea di amore universale senza pregiudizi e di una genitorialità trasversale purché fondata sull’affetto e sull’esempio, sensibile alle sfide della modernità, intellettuale illuminato e per questo insofferente all’oscurantismo di una certa politica.
Femminista, consacrato tale col titolo di “Donna ad honorem” da quelle stesse donne che ha curato ed amato per tutta una vita. Acerrimo nemico dei divieti posti dalla legge 40, la definiva «un’ipoteca sulla libertà». «Se liberalizziamo» diceva «non ne aumentiamo l’uso, riduciamo invece la mortalità da overdose e la criminalità collegata alla produzione e allo spaccio».
Realista quando si parlava di droga, ma visionario nel suo progetto di ospedale umano, «prolungamento naturale della vita cittadina». Il suo impegno civile si è costantemente incontrato con le iniziative promosse dall'Associazione Luca Coscioni. Condivisione di temi e battaglie che si è tradotta in una partecipazione attiva come padre della Fondazione per il progresso delle Scienze, Relatore dei convegni organizzati e firmatario di proposte di legge.
Veronesi era «un punto di riferimento per le grandi speranze laiche del nostro paese» hanno dichiarato il Tesoriere e il Segretario dell’associazione. L’ultima stagione del suo idealismo è stata profondamente segnata dall’idea di una scienza a servizio della concordia universale. Immaginava una comunità scientifica animata da un pacifismo né evanescente, né astratto, ma «razionale e praticabile». Un’utopia che si poneva obiettivi concreti «per diffondere un clima di tolleranza e solidarietà».
Nel penultimo capitolo di Confessioni di un anticonformista, scritto assieme alla giornalista Annalisa Chirico, c’è una testimonianza autentica della fine di un ciclo. Non è un bilancio, perché «quel che è stato è stato», ma un’autoanalisi lucida, una riflessione critica sulla propria esistenza. Poco spazio lasciato ai rimorsi: «Ne ho cento e nessuno»; nessun margine per l’autocelebrazione: «Sostanzialmente ho fallito».
Lo sguardo fino all’ultimo proiettato verso il futuro. Non il proprio, percepito come prossimo a ritornare nel nulla dove tutto è cominciato, bensì al progresso dell’umanità, a quello che sarà del mondo tra cento e duecento anni. Le ultime parole pubbliche le ha rivolte, non a caso, ai giovani medici. «L’importante non è sapere, ma cercare» ha scritto, consegnando alle generazioni di domani il suo invito appassionato a coltivare dubbio e trasgressione.
Ludovica Passeri
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