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15/11/24 ore

Il caso Minzolini (al di là della rissa)


  • Silvio Pergameno

Il senatore Augusto Minzolini(di Forza Italia) era stato direttore del TG1 e poi aveva riportato una condanna a due anni e sei mesi per peculato (cattivo uso della carta di credito aziendale), e si era quindi trovato invischiato nei rigori della legge Severino (si dice per comodità), che prevede la decadenza dei parlamentari che abbiano riportato condanne penali superiori a due anni. Il Senato ha però respinto la richiesta di decadenza, che la Giunta per le elezioni aveva formulato.

 

Era abbastanza facile prevedere che quello di Minzolini sarebbe diventato un “caso”, non soltanto per le solite questioni di rivalità politiche, ma perché dietro la porta c’è l’altro caso, quello “Berlusconi”, che è in attesa del giudizio della CEDU, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, alla quale ha presentato ricorso. Se la Corte emettesse una sentenza favorevole, per molti il ritorno di un Cavaliere rimesso in sella sarebbe non soltanto un rischio (tutto politico, ovviamente), ma uno smacco terribile, dopo tutto il can can sollevato sulle sue vicende.

 

Comunque, la materia è molto delicata, perché sono in gioco tanto un diritto fondamentale, come quello di esser candidato alle elezioni, quanto i rapporti fra potere legislativo e potere giudiziario, anche se è facile lanciarsi sui pasticci corporativi, sui favori, sui voti di scambio e su tutto l’armamentario populistico dell’antipolitica.

 

Le cose stanno in modo un tantino diverso, le disposizioni in materia sono dettagliate e la legge Severino a dire il vero c’entra poco, in quanto si limita a dare incarico al governo di provvedere alla compilazione di un testo unico delle disposizioni precedenti, incarico che serve a mettere ordine e a fornire qualche chiarimento, ma non consente innovazioni né cambiamenti.

 

Ciò premesso, cerchiamo di capire meglio seguendo le disposizioni risultanti dal decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, emanato dal governo in esecuzione dell’incarico ricevuto. E la disciplina risultante da queste disposizioni distingue prima di tutto tra il candidato e l’eletto: il cittadino che si candida, pur avendo già riportato una condanna superiore a due anni, viene semplicemente cancellato dalla lista.

 

Se invece il provvedimento penale colpisce un cittadino già eletto subentra un’ulteriore distinzione, fondata sull’atto di proclamazione degli eletti, in base alla quale se la condanna interviene prima di essa allora egualmente si verifica una decadenza di ufficio (perché l’eletto non ancora proclamato si trova ancora in una fase di attesa).

 

Se invece la proclamazione sia già avvenuta e quindi l’eletto sia ormai entrato nel pieno possesso del suo status, allora il dare effetto, diciamo di ufficio, a un provvedimento del potere giudiziario, come nei casi precedenti, non solo e non tanto violerebbe lo status del parlamentare, ma urterebbe contro la sovranità del Parlamento.

 

E infatti nella fattispecie l’art. 66 della Costituzione – in ossequio al principio della divisione dei poteri - stabilisce che: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. E a questa disposizione costituzionale l’art. 3 del ricordato decreto legislativo n. 235 si limita a fare rinvio. Ovvio che allora siano le valutazioni e le convenienze politiche a determinare i sì, i no o le astensioni o le uscite dall’aula o il restarsene proprio a casa, ma questo è il normale andamento della vita parlamentare, senza che alcuna delle opzioni comporti violazione di alcun legge (Severino o non Severino).

 

 


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