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08/05/24 ore

Oligarchie e corporazioni precludono ogni azione riformatrice


  • Luigi O. Rintallo

L’appuntamento della Leopolda n. 12, il periodico raduno alla ex stazione fiorentina organizzato da Matteo Renzi, oggi leader di Italia Viva, cade in un momento della politica italiana che – da un lato – pare aver diradato le incertezze sui propositi di alcuni partiti, ma – dall’altro – conferma quanto la mancata soluzione della “questione liberale” in entrambi gli schieramenti in campo, di sinistra e di destra, renda assai problematico immaginare soluzioni o rimedi allo stato di crisi in cui da troppo tempo si trova l’Italia.

 

Al senatore Renzi molti riconoscono l’abilità nel cogliere le opportunità idonee a renderlo protagonista, come dimostrato nell’agosto del 2019 e a dicembre 2020, ma in pochi indicano il momento in cui ha irrimediabilmente pregiudicato le prospettive strategiche di cambiamento da lui dichiaratamente avanzate. 

 

A nostro avviso – come riportato su «Agenzia Radicale» – esso va individuato nella scelta sul Quirinale nel 2015 quando l’allora segretario del PD, in contrasto con le presunte premesse politiche portate avanti sino allora, assecondò un processo di natura restaurativa

 

Tale processo si è potuto realizzare grazie a quel “partito del Quirinale” (spesso richiamato dal direttore Giuseppe Rippa che sottolinea come esso non coincida necessariamente con il Presidente della Repubblica in carica), da considerarsi una vera e propria roccaforte rappresentativa della capacità di influenza di oligarchie ed apparati, intenzionati a scongiurare qualunque mutamento che possa minare la salvaguardia dei loro interessi, sovente contrastanti con quelli generali.

 

Lo si constatò già l’anno seguente, nel 2016, all’indomani del voto referendario che bocciò la proposta di riforma costituzionale renziana, quando evitò di anticipare le elezioni politiche, che forse non sarebbero dispiaciute al premier dimissionario perché gli avrebbero consentito di cavalcare il sostanzioso 40,8% di SI ottenuto nelle urne il 4 dicembre. 

 

Da allora, l’azione della gran parte degli apparati del partito del Quirinale è stata contrassegnata da una sorta di preclusione verso ogni tipo di riforma, a difesa di uno status quo paradossalmente favorito proprio da chi assume le posizioni più estreme, che non a caso hanno goduto di indebite coperture.

 

Il potere di apparati e oligarchie, usando il carburante di anti-politica e giustizialismo, ha esteso il suo condizionamento sulla vita pubblica mantenendo inalterato l’obiettivo di conservazione che si prefigge. 

 

Una buona mano è stata offerta, in tal senso, da un’informazione che ha abdicato alle funzioni proprie in una democrazia. Le vicende di questi giorni sui dossieraggi predisposti da funzionari pubblici, su sollecitazione o in favore di giornali che “montavano” campagne mediatiche contro quanti erano sgraditi agli editori committenti, hanno alzato il coperchio su una situazione già da tempo nota e descritta. 

 

Vent’anni fa, su «Quaderni Radicali» (n.87 del 2004), scrivevamo infatti che “si avanza uno strano giornalismo, un giornalismo travestito che può disporre di una forza di condizionamento, priva di ogni controllo se non quello dei soggetti ai quali risponde…  i media in genere rischiano così di assumere contorni assai meno rassicuranti. Un po’ come accadde negli anni ’70 agli eserciti, dai quali si temeva  potesse venire l’attacco mortale alle democrazie: in fondo, nella società mediatica del nostro tempo pilotare una campagna di stampa serve più che guidare una colonna di carri armati”.

 

Purtroppo, l’assenza di una cultura politica liberale e riformatrice tanto presso il Centrodestra quanto – a maggior ragione – nel PD, al seguito del Movimento 5 Stelle di Conte, terminale privilegiato delle stesse corporazioni autoreferenziali che insidiano il libero confronto con questi sistemi, impedisce di ben sperare per il futuro. 

 

 


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