L’inizio dell’estate è accompagnato nei servizi di giornali e tg da un evergreen: le cronache sull’esame di maturità, con i pensosi commenti di chi è chiamato a riempire gli spazi contigui alla notizia ripresa per l’occasione. Quest’ultimo in genere è estraneo al mondo della scuola italiana, o al più ne parla in base ai suoi personali ricordi.
Il risultato è che dell’esame affrontato ogni anno da migliaia di maturandi si dà una lettura sganciata dai dati della realtà, con l’aggravante di manifestare solo un’attenzione effimera che rivela una verità sovente taciuta: il disinteresse che circonda l’istruzione e la formazione, sia a livello dei soggetti informativi e sia – più in generale – da parte della società italiana nel suo complesso.
Anche quest’anno non ha fatto eccezione, con la variante di aggiungere alle solite litanie prodighe di consigli anti-stress per studenti e famiglie, tanto inutili quanto distanti dal dato di fatto di diffusa irrilevanza dell’esame sia in sé che nella vita di tutti i suoi protagonisti, il racconto delle tre candidate rimaste mute alla prova orale per protestare contro l’insufficienza assegnata al loro scritto di greco.
Se vogliamo trarre dalle vicende descritte qualche osservazione meritevole di essere meglio considerata, occorre partire dalle criticità che distinguono l’esame di Stato così come è stato ordinato dalla riforma del ministro Luigi Berlinguer ormai quasi venticinque anni fa.
Al di là degli altri interventi subiti dalla normativa, la struttura portante è infatti rimasta invariata e si contraddistingueva sin dai suoi esordi per l’incoerenza rispetto agli indirizzi suggeriti con insistenza, sino al punto di imporli nella consuetudine operativa, dalla stessa amministrazione scolastica.
Tali indirizzi, in nome di astratte inclusività e allo scopo di pervenire agli obiettivi dichiaratamente pre-fissati di successo formativo garantito, hanno in pratica prodotto una facilitazione dei percorsi di apprendimento negli anni che precedono l’esame. Ciò ha significato che nei corsi precedenti l’ultimo, le promozioni sono conseguite nonostante “debiti scolastici” mai davvero sanati, per giungere quindi a sostenere prove oggettivamente impegnative e complesse.
Anche qualora lo studente abbia un curriculum di tutto rispetto, va tenuto presente che esso è stato ottenuto attraverso il soddisfacimento di obiettivi realizzati in contesti che non ne valorizzavano a pieno tutte le potenzialità. Figuriamoci cosa può accadere nei casi di studenti meno preparati.
All’incoerenza è stato posto il più deleterio dei rimedi: la semplificazione, oltremodo scandalosa, della prova orale ridottasi alla discussione di un argomento a piacere (per di più non di rado svincolato dai programmi di studio).
Di qui la registrazione delle percentuali elevatissime di diplomati, che se da un lato rispondono agli imperativi dettati a livello europeo – nell’ottica non tanto di realizzare un ampliamento del sapere dei cittadini, quanto piuttosto di plasmarli su livelli di mediocrità che ne riducono le prospettive di avanzamento nell’ascensore sociale – certificano, dall’altro lato, l’oggettiva inutilità di un esame siffatto.
A ciò si aggiunga la nocività di distribuire titoli di studio equipollenti sul piano degli effetti concreti, cosicché non vi siano differenze tra gli studenti se escludiamo il voto finale conseguito, per di più spesso poco significativo perché frutto di casualità del tutto imponderabili, stante il peso maggiore dato alle prove (60%) rispetto ai risultati degli anni pregressi (40%).
Se ne deduce che l’esame di Stato richiederebbe di essere cambiato al più presto. L’esperienza conferma purtroppo che i cambiamenti non siano di per sé migliorativi. Tuttavia, un buon modo per procedere consiste nel tener conto delle problematicità emerse.
La prima è rappresentata dalla disabitudine degli studenti ad affrontare le prove: in passato uno studente era sottoposto a quattro momenti di giudizio, in cui era davvero esaminato da persone che non conosceva, mentre ora ciò accade solo una volta al termine del quinto anno delle medie superiori.
Senza procedere a modifiche legislative, potrebbero adottarsi provvedimenti in via amministrativa che trasformino gli scrutini nelle superiori in verifiche di fine anno affidate a consigli di classe di altre sezioni all’interno dei rispettivi istituti scolastici.
Un secondo problema riguarda invece l’inversione della proporzione fra la valutazione del percorso scolastico e quella delle prove di esame. Dare minor peso alle prove scritte ed orali ridurrebbe il rischio di avere miracolati e delusi fra i candidati.
Infine, esiste il problema delle ridotte conoscenze di base da parte di persone che hanno comunque anni e anni di studio alle spalle. È chiaramente una conseguenza della semi-secolare prassi pedagogica, che ha privilegiato “competenze ed abilità” rispetto al sapere e impostasi a partire dal brasiliano Paul Freire, ma si potrebbe iniziare a porvi rimedio dando valore nell’esame di Stato alle prove Invalsi* così da giustificare gli investimenti fatti per l’ente di valutazione dei risultati di apprendimento nazionali.
Chissà che tali primi passi non possano essere l’inizio di un cambiamento finalmente inteso a tener conto della realtà.
* (prove scritte svolte ogni anno da tutti gli studenti italiani delle classi previste dalla normativa. Il loro scopo è valutare, in alcuni momenti chiave del ciclo scolastico, i livelli di apprendimento di alcune competenze fondamentali in Italiano, Matematica e Inglese…)
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