Il risultato delle elezioni nel Regno Unito ha avuto l’effetto di riproporre un classico della propaganda della sinistra italiana: quel “contrordine compagni” che attirò l’ironia di Giovannino Guareschi, quando ne fece il titolo di numerose sue vignette su «Candido».
Dopo settimane passate a lanciare angosciati allarmi per la deriva fascista in Europa, d’improvviso la conquista della maggioranza dei seggi da parte dei Laburisti apre a radiose prospettive e annuncia drastiche inversioni di marcia del corso storico: non ci attenderebbero più i fantasmi dei regimi autoritari, bensì la riscossa delle forze di progresso di nuovo in sintonia con le indicazioni prevalenti dei cittadini.
È una lettura abbastanza ricorrente nell’informazione, ma che a dire il vero convince poco e non tanto perché rivelatrice del disturbo bipolare da cui pare colpita una certa sinistra italiana, quanto perché al suo interno si attribuiscono ragioni divergenti al successo del nuovo premier inglese Keir Starmer.
L’ala cosiddetta “riformista” (da Bonaccini a Renzi) dell’odierna opposizione, infatti, la ricollega all’abbandono dell’impianto fortemente ideologizzato del Labour di Corbyn e Milland, con la conseguente conversione in senso pragmatico e moderato; mentre da parte di esponenti dell’attuale leadership del PD, come Giuseppe Provenzano, si evidenzia l’importanza del recupero dei temi sociali.
Quanto queste interpretazioni del voto inglese siano usate strumentalmente a fini tutti interni alla politica italiana lo lasciamo al commento altrui. Preme, tuttavia, rilevare un altro aspetto che riguarda non solo il nostro Paese ma un po’ tutta la situazione europea.
Ritenere che il voto inglese testimoni un cambiamento di rotta da parte degli elettori trascura un dato incontrovertibile: in quasi tutte le nazioni europee è ben difficile che si possano verificare chissà quali rovesciamenti di opinione, perché siamo un continente a forte prevalenza di una popolazione matura e, del resto, a guardare gli andamenti delle varie elezioni è facile riscontrare come i blocchi dei votanti siano rimasti per lo più invariati nel corso del tempo.
Gli spostamenti non avvengono per il passaggio di elettori da un blocco all’altro, da sinistra a destra e viceversa, ma per circostanze particolari che mutano la distribuzione dei voti alle singole forze politiche.
Una tendenza che non è stata contraddetta nemmeno dal voto politico del 2018 in Italia, quando un nuovo movimento, come i 5 Stelle, ha scompaginato il bipolarismo della cosiddetta Seconda Repubblica: nel giro di qualche anno, si è visto come alla fine i blocchi elettorali si siano poi ricomposti più o meno nella stessa maniera degli anni passati.
In questo senso, anche le votazioni inglesi non fanno eccezione: il Labour non ha persuaso nuovi elettori a votarlo (l’incremento è stato solo dell’1%) e le convinzioni dei settori di opinione pubblica sono scarsamente cambiate da un punto di vista sociale.
A determinare il successo in termini di seggi dei Laburisti è stato ovviamente il sistema di voto uninominale, che dà la vittoria al partito che ottiene più voti nel collegio elettorale. È evidente che se lo schieramento avverso si frantuma in più parti, diventa problematico conquistare la maggioranza nei collegi.
Ciò conduce a riflettere sulla lezione che si può trarre dalle elezioni inglesi per quanto riguarda invece le riforme istituzionali che dovrebbero farsi, se si vuole risolvere la discrasia tra l’esigenza di governabilità e quella della effettiva rappresentatività.
Chiunque non può che rimanere colpito dalla linearità del processo verso la formazione del governo in Gran Bretagna: poche ore dopo l’esito delle urne, il re Carlo III ha nominato premier il leader del partito che ha ottenuto la maggioranza dei seggi.
Niente a che vedere con i bizantinismi italiani, dove al temporaneo inquilino del Quirinale dopo un voto è possibile estrarre infinite e variabili soluzioni come farebbe il mago Silvan coi fazzoletti dal cilindro. E nemmeno ha a che vedere con il semi-presidenzialismo francese, che oggi risente sempre più del logoramento accentuatosi negli ultimi decenni ed è oggi dominato da pulsioni giacobine pronte a sfruttare gli espedienti offerti dal doppio turno e dal mercato dei ballottaggi, senza preoccuparsi di portare sull’orlo di una conflittualità estrema.
L’antica battaglia radicale di Marco Pannella in favore del sistema uninominale, sotto questo aspetto, era parte integrante della volontà di riformare le istituzioni proprio per valorizzare i principi liberali e consentire un governo reale del Paese.
Come dovrebbe essere ovvio, anch’essa richiedeva però di essere intrapresa senza cedere alla tentazione di farla calare entro un contesto che per sua natura ne negava i presupposti, poiché inquinato dalla lunga stagione di disinformazione e difese corporative promosse dalle oligarchie dominanti.
A questo punto, perché un processo riformatore delle nostre istituzioni possa davvero essere apprezzato ha bisogno di considerare con cura caratteri e problemi della realtà politica e sociale dell’Italia. L’obiettivo è chiaro: ridare valore alla rappresentatività, unendola al rafforzamento della capacità di governo da parte della classe politica.
Per conseguirlo è forse illusorio pensare di prescindere dalla natura frammentaria del panorama di forze politiche presenti nel Paese, così come adottare modelli costituzionali che già ora presentano più di una criticità come si è visto nella vicina Francia e come lo stesso esito britannico lascia intravedere, laddove si consideri come l’aumento dei partiti in competizione pregiudichi fortemente l’aderenza alla volontà maggioritaria del corpo elettorale, se è vero che la maggioranza assoluta a una forza detentrice di un terzo dei consensi esclude di fatto gli altri due terzi.
Non è facile trovare il giusto punto di equilibrio tra le varie esigenze, ma qualora ci si voglia davvero applicare per realizzarlo è più che mai necessario considerare cosa i cittadini richiedono alla classe politica: scelte di governo chiare e trasparenti; di essere quanto più rappresentativa della molteplicità di sensibilità e indirizzi presenti nella società; l’ampliamento di una partecipazione reale e consapevole all’assunzione delle decisioni.
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