Ognuno è libero di avere qualsiasi opinione negativa sulla pluriennale esperienza di governo di Antonio Bassolino alla guida del comune di Napoli prima (1993-2000), e della regione Campania poi (2000-2010), e dunque anche della proposta, da lui lanciata alcuni giorni fa, di candidarsi alle prossime primarie del Pd nel capoluogo campano. Ma che ad egli, cittadino italiano e politico come tutti gli altri, venga negata questa possibilità attraverso un ambiguo cambio di regole in corso d'opera, e da parte di un partito che fin dalle sue origini aspira a definirsi "democratico", ciò rende tutta la situazione alquanto paradossale.
La regola "ad personas" (in quanto mira ad applicarsi anche nei confronti dell'ex sindaco di Roma Ignazio Marino) che serpeggia nelle menti della segreteria del Pd ha dell'incredibile: vietare a chi è stato già sindaco di ricandidarsi alle primarie. E il tutto, si noti, con una clausola "speciale", anch'essa "ad personas": la regola non varrebbe per i sindaci in carica che si cimentano con un secondo mandato, ossia un sindaco in carica come Piero Fassino, che ha accettato controvoglia di ripresentarsi con il Pd a Torino in seguito agli inviti disperati della dirigenza.
Questa confusionaria, ma in fondo precisa, manovra "regolatoria" viene giustificata con i soliti proclami moralizzatori. "Bisogna rinnovare la classe dirigente" dichiara il vicesegretario del Pd Debora Serracchiani, come se gli elettori non fossero in grado di valutare autonomamente in cabina elettorale le diverse proposte di governo e di decidere, dunque, dell'opportunità di "rinnovare" la classe dirigente oppure di affidarsi, ancora una volta, ad un candidato con una lunga esperienza alle spalle (positiva o negativa che sia, ma questa è un'altra considerazione che dovrebbe spettare ai cittadini).
La contro-risposta, quasi infantile, data dalla vicesegretaria ("La regola in realtà varrebbe anche per Renzi a Firenze e Delrio a Reggio Emilia") non fa che aggiungere un ulteriore tocco di ridicolo ad una vicenda già di per sé farsesca.
Se per sapere l'esito della querelle occorrerà aspettare ancora un po' ("Discutiamone a gennaio" dice oggi il premier Renzi), un dato politico emerge chiaramente già in queste ore, e cioè l'assoluta debolezza del Partito democratico in termini di costruzione di classe dirigente e di definizione di una valida proposta politica. Per affermare la propria ragione, un partito serio, e veramente democratico, non cambia le regole del gioco, ma confida nella forza delle proprie idee: se queste sono credibili, verranno premiate dagli elettori. Ma se tutto il dibattito interno viene ridotto alla solita baraonda fatta di regolette, vincoli e clausole, allora vuol dire che di idee credibili, evidentemente, non se ne hanno poi molte.
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