Finalmente il suo giorno. Quello di Giuseppe Conte, fin qui oscurato dall'invadenza mediatica dei due azionisti di maggioranza. È andata tutto come previsto, sintetizzabile nel giudizio dato da Matteo Salvini: "bellissimo il discorso del premier. Condivido tutti i punti".
Che sono poi quelli del famoso “contratto”, che nell'intervento dell' “avvocato del popolo” sulla Fiducia al Senato hanno trovato una forma più accattivante ed enfatica, a beneficio della platea plaudente. Fin troppo, forse. Tanto che l'Aula di Palazzo Madama sembrava per l'occasione lo studio televisivo di Giovanni Floris mentre s'intervista con deferenza Alessandro Di Battista.
“92 minuti di applausi”, per dirla con Fantozzi, intervallati dalla rigorosa enunciazione delle buone intenzioni: ora più incisiva e convinta, quando si è trattato di manifestare, ahinoi, l'anima giustizialista e manettara del governo; ora ambigua ed equivoca, a proposito di Europa e migranti; ora fumosa e superficiale, nella parte dove non è chiaro il “chi paga”.
Dal discorso del Presidente del Consiglio sono comunque arrivate alcune conferme. Primo: il reddito di cittadinanza, o quel che resta del progetto originario che tanti consensi ha portato, dipenderà dall'imprecisato riordino dei centri per l'impiego. Secondo: la Flat tax sarà – se sarà - a tutti gli effetti un ossimoro, se è vero quanto ribadito da Conte sulla sua progressività. Terzo: abolizione della legge Fornero non pervenuta, assente, almeno nelle parole, dopo essere stata nel tempo opportunamente annacquata.
Da segnalare, inoltre, l'elogio - con tanto di fiera rivendicazione - del populismo, nell'accezione personalissima di chi ritiene sia tale la propensione all'ascolto della “gente”, e il prevedibile ammorbidimento delle posizioni sulla Russia. Per il resto, tante parole. Troppe, vista la sostanza. Si poteva farla più breve.
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