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20/01/25 ore

L’anniversario della morte di Bettino Craxi. Tra omissioni e ipocriti ravvedimenti



Nel venticinquesimo anniversario della morte del leader socialista Bettino Craxi, pubblichiamo il testo ricavato dal video della conversazione tra il direttore di «Quaderni Radicali» e «Agenzia Radicale» Giuseppe Rippa e Luigi O. Rintallo, risalente al 2020. È una lettura tutta politica che si distacca nettamente da altre che, in queste settimane proprio per questo 25° anniversario, vengono proposte sul mercato dell’informazione e che – sotto il travestimento dell’attenzione al risvolto umano – contribuiscono ad evitare una compiuta consapevolezza di quanto avvenuto.

 

Rippa evidenzia come all’inizio degli anni ’80 si aprì lo spiraglio di una prospettiva inedita per l’Italia, da sempre stretta nella gabbia del bipolarismo consociativo fra democristiani e comunisti, all’insegna di una possibile alternativa laica e riformatrice capace di sostanziare una sinistra di governo nel Paese.

 

Dopo il 1989, anziché assistere al dispiegamento di tale prospettiva, si è registrata una involuzione che ha allontanato il Paese dalla piena adesione ai principi di una democrazia liberale. Lo smantellamento dei partiti della prima Repubblica, seguito alle inchieste di Mani pulite, ha portato da un lato alla marginalizzazione dell’area liberal-socialista e radicale e, dall’altro, ha reso la politica sempre più prigioniera di poteri e oligarchie tendenti a ridurre sempre più gli spazi della dialettica di una democrazia partecipata.

 

Tale processo è stato favorito dalla condizione di oggettiva subalternità del Partito Democratico, erede del consociativismo catto-comunista, e dalle scelte delle élites finanziarie – interne e internazionali – volte a sostenere l’anti-politica di forze e movimenti disinteressati e incapaci di esercitare una reale azione di governo politico, allo scopo di sfruttare a loro vantaggio la condizione di incertezza e confusione così determinatasi.

 

 

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RintalloI vent’anni dalla morte di Bettino Craxi hanno coinciso con l’uscita del film Hammamet di Gianni Amelio e di alcuni testi sul leader socialista. Ciò permette di confrontarci non soltanto sulla ricorrenza, ma anche di svolgere una riflessione sulla politica del segretario del PSI e sul ruolo che l’area laica, liberale, socialista e radicale ha avuto durante il quindicennio che lo vide fra i protagonisti della scena politica italiana. In che modo il nuovo corso craxiano determinò una svolta, aprendo una prospettiva di rilancio della collaborazione tra socialisti e radicali? La stagione apertasi negli anni ’80 predispose una piattaforma dotata di potenzialità di sviluppo per l’iniziativa riformatrice, che purtroppo sono andate deluse dopo il 1989 e hanno determinato l’attuale situazione che appare all’opposto ben lontana dalle attese suscitate allora…

 

Rippa - Quello che mi ha sorpreso – ma non più di tanto a dire il vero – è il fatto che, proprio in occasione di questo ventennale, sono emersi degli aspetti che, a mio avviso, costituiscono una linea di continuità con il modello strutturale del sistema di potere consociativo italiano. Un modello oggi piegato dallo stato di crisi economica, politica ed istituzionale, ma che mira ancora una volta a reiterare un meccanismo che vede un’oligarchia ristretta impegnata nel tentativo disperato di mantenere il controllo su una società che oramai le sfugge di mano.

 

Quella attuale è una società con tutt’altro tipo di dinamiche rispetto a cinquant’anni fa, ma che il sistema di potere consolidatosi in Italia dopo Jalta ha contribuito a formare sui parametri di de-responsabilizzazione dei soggetti sociali e di assenza di consapevolezza circa gli avvenimenti che gli stessi soggetti si trovano a vivere. Quest’assenza di consapevolezza non nasce davvero da un reiterato vizio di indifferenza, ma nasce dal modello di informazione con cui si riforniscono i dati di conoscenza. Lo si è visto anche durante i dibattiti televisivi riguardo alla ricorrenza della morte di Craxi: gli “attori” che sono stati chiamati a discutere del ventennale sono alcuni residui alogenici, forse non sempre coincidenti temporalmente con quell’epoca ma comunque sempre residui alogenici di quella linea culturale che aveva portato alla criminalizzazione di Bettino Craxi e di tutti gli anni ’80 dal punto di vista politico.

 

È completamente mancata la capacità di rileggere il percorso storico e il perché quella vicenda sia finita così drammaticamente. Ricordiamo che nel 1976 Craxi vinse il difficile congresso socialista, svoltosi all’Hotel Midas di Roma dopo il deludente risultato alle elezioni politiche che videro il PSI inchiodato sotto il 10%. Per un decennio il partito era stato guidato da Francesco De Martino, la cui figura possiamo tratteggiarla sì come autorevole, ma sicuramente – e qui uso un’espressione che rischia di essere ingiusta, ma che sostanzia il contenuto politico – ancorata ad una logica di subalternità al Partito comunista.

 

Il Midas nasce come una vocazione “altra”, come il tentativo di accogliere – almeno nella prima fase dell’azione impressa da Craxi – una traiettoria che assorbisse anche la crisi della socialdemocrazia. Certamente non eravamo ancora al 1989, con il tracollo del comunismo di matrice sovietica e in parallelo l’emersione dell’affanno delle socialdemocrazie di fronte ai processi della globalizzazione, ma la direzione di marcia adottata da Craxi inseriva nel dibattito politico nuove categorie quali i meriti, i bisogni, le istanze di matrice libertaria e le identità delle persone, che si sposavano perfettamente con l’analisi dei radicali.

 

Quando nel 1979 si tengono le elezioni politiche anticipate, i radicali raggiungono un risultato clamoroso: quasi il 3,5%. Clamoroso se consideriamo quel tempo, perché non si era ancora dentro la cosiddetta “società liquida”: all’epoca le roccaforti dei partiti, i controlli centrali sul voto e i controlli economici, nonché l’azione di pressione sul consenso, erano talmente intensi che quella percentuale al partito della Rosa nel pugno rappresentava un’esplosione inaspettata. 

 

Per di più realizzata con ridottissime energie materiali, ma dotate di grande intensità d’analisi politica. Il PSI registra allora un insensibile incremento di soli due decimali di punto e Craxi si trova in netta difficoltà, poiché è esposto a un elevato livello di rischio e qui si apre una pagina che spiega le dinamiche con cui si realizzava il consenso, riguardanti il mantenimento delle forze politiche, i loro costi e i modi nei quali si determinavano i meccanismi per indirizzare il voto degli elettori.

 

Per il neo-segretario l’esposizione al rischio risente delle molteplici pressioni in atto, dalle tangenti dello scandalo ENI-Petromin – rivelatore degli intrecci tra gli interessi dei giornali-partito ostili a Craxi, come «la Repubblica» di Eugenio Scalfari, e le trame piduiste – al pericolo di perdere la maggioranza nel Comitato centrale a seguito delle lusinghe esercitate sulla corrente di sinistra del PSI per farle togliere l’appoggio concesso al Midas. 

 

Il punto di svolta è dato dal voto regionale del 1980: in quell’anno, dopo la mia elezione a segretario, il Partito radicale lancia la campagna per dieci referendum e Marco Pannella accoglie la sollecitazione a farne una pietra angolare della nostra azione politica. Difendere i dieci referendum – che andavano dall’abolizione dei reati di opinione a quella delle leggi emergenziali – significava difendere l’impianto politico-culturale che essi esprimevano, perché era una vera e propria forma di intervento riformatore nell’alveo del modello referendario costituzionale che, com’è noto, prevede solo l’ipotesi abrogativa; ciononostante con un lavoro di attenta selezione si era delineato un percorso tale da considerarlo la prima piattaforma di un’azione di riforma per il Paese.

 

Tale aspetto è colto da Craxi e i radicali, concentrati sulla campagna referendaria, decidono di non presentare le loro liste alle elezioni regionali. Io stesso dichiaro che la non partecipazione al voto amministrativo è una iniziativa per cui una realtà piccola quale il Partito radicale prova a fissare la priorità dell’obiettivo rappresentato dai referendum. I socialisti decidono di firmare i referendum, con Bettino Craxi che va al Campidoglio a farlo. Si apre così un varco estremamente interessante, per cui il PSI passa dal 10,3 delle regionali del 1975 al 13,8%. 

 

Si profila la possibilità di un’azione che comincia ad essere efficace anche sul piano elettorale, mentre fino ad allora non lo era stata perché il mondo socialista dal dopoguerra in poi era sempre stato minoritario dal punto di vista del consenso degli elettori, con delle implicazioni rispetto al resto delle socialdemocrazie europee che avevano un peso consistente. In Italia prevaleva invece un Partito comunista che era tre volte il PSI. 

 

Questo passaggio politico appena ricordato è stato del tutto ignorato dagli interventi registrati durante questo ventennale, non essendo citato nemmeno dagli stessi socialisti. Eppure, non si trattò di un passaggio puramente tattico, perché fu discusso e deliberato direttamente da Craxi e Martelli per il PSI oltre che dal sottoscritto in quanto segretario del Partito radicale e da Marco Pannella in prima persona, che all’incontro conclusivo all’hotel Raphael nel 1980 occupò da par suo la scena individuandovi l’occasione per puntare all’obiettivo di costituzione di un’area politica molto più ampia. 

 

È un aspetto che va tenuto in considerazione. Subito dopo abbiamo avuto la conversione del PSI indirizzata verso le vecchie alleanze di centro-sinistra. Evidentemente era impossibile pensare a un drastico mutamento di rotta; tuttavia, quel momento di convergenza aveva pur sempre rappresentato una continuità adeguata verso la capacità di proporre una nuova scenografia del modello laico, liberale, socialista e radicale e potenziare il suo intento riformatore e – perché no – riformista, al di là del fatto che non sto qui a disquisire sulla distinzione tra riformatori e riformisti. Si tratta di un segmento politico assai interessante, perché a mio avviso soltanto con questa preparazione saremmo stati in grado di affrontare tutte quelle altre questioni che portarono poi al tracollo della vicenda socialista alla fine degli anni ’80. Caduto il Muro di Berlino, il PSI diventa oggetto di una serie di attacchi e qui si potrebbe anche riflettere sul perché si determinò una situazione del genere, con le inchieste di Mani pulite e il processo al leader socialista. 

 

Si tratterebbe di una riflessione che non eluderebbe certo il nostro giudizio molto severo verso la corruzione, ma mirerebbe ad evidenziare come quel meccanismo fu iscritto nell’ambito giudiziario dentro una traiettoria squisitamente politica, che aveva il suo retroterra precedente nell’azione esercitata da quello che già Alcide De Gasperi chiamava il “quarto partito”. 

 

Con tale termine lo storico leader democristiano indicava il partito di chi non aveva voti, ma aveva denaro e capacità di influenza tali da offrire l’estro a un insieme di personaggi, assai poco attendibili, i quali reiterano la criminalizzazione nei confronti di Craxi. Quest’ultimo, da parte sua, si è trovato nella condizione di affrontare il problema del finanziamento alla politica attraverso procedure non esattamente raccomandabili, da noi radicali puntualmente criticate e denunciate pubblicamente. 

 

Ma quello che più conta, quella campagna ha iscritto la messa in mora della corruzione su un unico segmento dimenticando che i segmenti maggiori erano quelli dei partiti maggiori – DC e PCI – che di fatto, per quanto schiantati, essendo radicati nei territori, nella pubblica amministrazione, nello Stato e nelle istituzioni, in parte avevano già fatto il loro compromesso con il succitato “quarto partito” della finanza e dei poteri economici e, per altro verso, si sentivano ostacolati dalla presenza di una soggettività politica – quella che intendeva rappresentare Craxi – che era di disturbo all’azione di continuismo del potere consociativo. 

 

Ecco, questo mi sembra un modo utile di cogliere l’occasione di questo ventennale per uscire dalle orbite abbastanza banalizzanti con cui si consuma nel circuito informativo questa vicenda. Essa è stata riproposta in questi termini dal nostro sistema televisivo, che sarà pure arretrato ma è pur sempre l’unico sistema che influenzi davvero il dibattito pubblico. Perché oramai i giornali sono morti e decotti, il web non è ancora in grado di assumere un ruolo incidente e dunque resta solo la televisione, la quale grazie all’input dei giornalisti ospiti della carta stampata e alla rappresentazione ripresa dai siti internet è in sostanza l’unico mezzo capace di tracciare una traiettoria definita. Il che fa ricadere sul sistema televisivo la responsabilità di essere stato il promotore dell’anti-politica e della catastrofe che ci troviamo a vivere in termini di consapevolezza democratica.

 

Rintallo - Proprio l’anti-politica tipica dei tempi odierni permette di focalizzare l’attenzione sull’elemento che, più di ogni altro, dovrebbe contrassegnare la descrizione della parabola craxiana. Bettino Craxi è il “politico” per antonomasia, in quanto antepone la politica a tutte le altre sfere sociali o economiche che siano. Sicuramente lo si può definire come il principale avversario dell’anti-politica. Craxi è tutt’altro che un populista, lo dimostra il referendum voluto nel 1985 dal PCI per abolire il decreto di San Valentino che decurtava le 27.000 lire corrispondenti a tre punti di scala mobile. In quell’occasione ai promotori del referendum che promettevano di reintegrare le buste paga, i cittadini italiani risposero con un sonoro NO, concedendo una fiducia assolutamente imprevedibile al governo presieduto da Craxi che invece il segretario del PCI Enrico Berlinguer aveva tacciato come un governo “pericoloso” per la democrazia.

 

L’altro aspetto indicativo della politica di Craxi sta, come dicevi, nella sua natura discordante rispetto al sistema dominante in Italia. La realtà è che sia Craxi, sia i radicali sono stati in quell’arco storico degli “abusivi”, nel senso che erano esponenti di una realtà che il potere consociativo respinge perché li considera estranei al modo di concepire l’ordine consolidatosi nel dopo Jalta. È appunto questa comune natura di devianza che ha avvicinato socialisti e radicali rispetto al consociativismo, considerato come pratica imprescindibile della gestione verticistica da parte del “quarto partito” prima da te evocato.

 

Il “quarto partito” dei soggetti economici e finanziari è quello che detiene la facoltà e la forza per condizionare le scelte fondamentali del Paese. In uno dei libri appena usciti su Craxi, Controvento di Fabio Martini (Rubbettino; 2020), colpisce il riferimento a un episodio poco noto o che, per lo meno, mi era sfuggito. Fabio Martini racconta dell’incontro che ci sarebbe stato tra Bettino Craxi ed Enrico Cuccia, il deus ex machina di Mediobanca, poco tempo prima della tempesta di Mani pulite nel 1991. Cuccia avrebbe proposto a Craxi di candidarsi al governo, allo scopo di realizzare il processo avviato nel post-1989 teso a riordinare il sistema economico, favorendo quelle privatizzazioni che dovevano risistemare le posizioni in gioco dei soggetti finanziari italiani per lo più monopolistici. 

 

Pare che Craxi abbia respinto l’offerta ed è significativo come nel suo libro Martini ricordi che, immediatamente dopo questo colloquio, Enrico Cuccia vada a firmare il referendum di Mario Segni per abolire i voti di preferenza alle elezioni. Referendum che segnerà l’inizio della fine di Craxi, dal punto di vista politico prima ancora che da quello giudiziario. Ti domando: in che senso il “quarto partito” ha condizionato la fase del post-1989 e come ha agito sul ruolo avuto dal PDS prima e poi, in anni recenti, dal PD il connubio coi poteri finanziari? Come mai gli eredi del PCI si sono dichiarati disponibili ad avere una relazione privilegiata con questo mondo della finanza italiana tendenzialmente gattopardesco?

 

Rippa - Esistono ragioni inerenti alla natura strutturale del mondo comunista dopo la caduta del Muro di Berlino e quindi dei vizi culturali che, sicuramente, hanno spinto gli eredi del PCI a vivere soltanto di subalternità. Ne abbiamo la controprova oggi, in queste ore, dal momento che il PD – con la sua filiera che parte dal PCI e prosegue con il PDS, i DS e in alleanza con la componente della sinistra DC diventa infine PD – è il reuccio del giustizialismo e di una funzione economica legata all’ampiamento del debito pubblico. Si tratta di un binomio non casuale, che poi trova nella legge a favore del proporzionalismo la conferma del disegno restaurativo sotteso a questo tipo di scelte. Ciò accade perché gli eredi del PCI e il PD nel suo insieme sono in qualche modo schiantati nel tramonto dell’ideologia comunista.

 

Il loro tessuto connettivo è molto vasto ed ha radicamenti in tutte le realtà – sindacati, apparati pubblici e corporazioni – che ora, in prossimità del voto in Emilia-Romagna, sono chiamati a difendere l’ultima “cassaforte” dove si custodiscono questi elementi. Hanno ancora margini di possibilità, anche perché il loro antagonista in questo caso – la Lega di Matteo Salvini – è a sua volta figlio di quel populismo creato dalle politiche di costoro. 

 

D’altronde, è inutile negarlo, è stato lo stesso PSI a determinare le ragioni strutturali di tutto ciò, quando nel 1989 Craxi ha oscillato tra una sorta di apertura al tracollo dell’impianto ideologico comunista, consentendo l’ingresso del PDS nell’Internazionale socialista, e dall’altra parte mantenendo un elemento di distacco. Tuttavia, la subalternità del PCI e, oggi, della componente post-comunista nel PD è legata a un fatto molto preciso: da decenni essi sono subalterni in assoluto, perché ancorano la propria visione alla pura gestione del potere che – necessariamente – deve sottostare al compromesso consociativo e verticistico.

 

Questo perché a sinistra non hanno mai risolto la “questione liberale”, tante volte descritta sui numeri della rivista «Quaderni Radicali». Non avendo mai affrontato il problema di un’azione riformatrice, hanno puntato sempre ad impedire che vi possano essere “scavalcamenti a sinistra” – per dirla con un linguaggio politicistico d’antan – che potessero in qualche modo far sbiadire la loro centralità. Adesso, però, non sono più in grado di distribuire le carte e per questo si rendono disponibili a qualunque ignobile causa. Ciò è particolarmente evidente se guardiamo al tema fondamentale della giustizia: per loro lo Stato di diritto è un ammennicolo secondario, non lo vivono certo in una dimensione di grande passione civile. 

 

Per loro è solo un elemento che conserva tutti i residui del controllo sociale, che non può più essere esercitato perché i meccanismi di reiterazione delle politiche finora adottate non permettono evidentemente di controllare alcunché nel tipo di società attuale. Per questo “inventano” di volta in volta presunti movimenti: il popolo dei fax, il popolo viola, i girotondini e adesso le Sardine… Servono soltanto a far vedere che c’è un movimento nel sociale, per supplire il loro vuoto di visione strategica e di progetto. Il che mortifica anche la domanda politica che proviene dalla gente: una domanda politica che molto spesso è condizionata dall’abissale ignoranza scientificamente costruita attraverso la subalternità del mondo dell’informazione alla grande finanza. 

 

Non è un caso che gran parte dei media e tutte le principali testate della stampa siano in mano a soggetti finanziari, non nasce certo casualmente questo stato di cose. I giornali, nella stagione post-1989 e durante Tangentopoli, sono stati usati per alimentare l’anti-politica tanto funzionale agli interessi dei loro proprietari, per i quali era di gran lunga preferibile mantener vivo il ribellismo demagogico che ne favoriva l’agire indisturbato. Se andiamo a scavare nei processi determinatisi nella fase di passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica – ce lo ricorda anche Claudio Martelli nel suo saggio dedicato a Craxi, L’antipatico (La Nave di Teseo; 2020) – c’è stata una vera e propria spoliazione della capacità italiana di autodeterminarsi economicamente. 

 

L’evidente accelerazione del debito pubblico muove dalla decisione presa nel 1981 dal ministro del Tesoro – democristiano di sinistra – Beniamino Andreatta, in accordo con l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, di far cessare l’acquisto dei titoli di Stato da parte dell’istituto nazionale di emissione. Esonerando la Banca d’Italia dall’obbligo di comprare i Bot sul mercato, si è aperto il varco alla penetrazione di soggetti stranieri nell’assalto alla “polpa” vera del sistema economico italiano: ha riguardato l’industria alimentare, la chimica, nonché lo smantellamento dello Stato in quanto tale.

 

Craxi, pur intenzionato a contrastare questa linea perversa di certo establishment economico ed istituzionale, ha ritenuto di combatterla con contro-alleanze di regime ed è proprio in questo una delle ragioni del contenzioso fra i radicali e i socialisti. Già allora io stesso ero molto determinato nella convinzione che non si combatte un sistema di quel genere, se non facendo lievitare un’altra cultura. Va sostenuta un’alterità culturale che ri-componga la verità storica, che – evidentemente – non può ricomporsi in assenza di un’iniziativa che sia in grado di rifornire i cittadini degli strumenti di conoscenza. Non erano battaglie “superflue” quando Pannella faceva i digiuni per la mancata composizione della Corte costituzionale; non erano battaglie “superflue” quando l’integrità dell’impianto istituzionale italiano veniva compromesso da atteggiamenti sempre poco attenti al rispetto delle regole.

 

Il sistema politico consociativo ha sempre adattato le regole in conformità agli accordi di volta in volta realizzati. Da parte delle oligarchie presenti nell’establishment italiano si sposava di fatto l’interpretazione internazionale degli Italiani quale “popolo bue”, di un popolo inaffidabile secondo i termini della tante volte citata dichiarazione del premier inglese Churchill, secondo cui aveva conosciuto 45 milioni di italiani fascisti e 45 milioni di italiani anti-fascisti, senza aver mai incontrato 90 milioni di Italiani. Un’interpretazione che risponde all’immagine proiettata all’esterno dall’Italia e che spinge verso una condizione oggettiva di subalternità.

 

Tutta la filiera del ragionamento, che da Spinelli attraverso Pannella mirava al federalismo europeo, presupponeva che vi fosse la coscienza dei singoli dati nazionali così da essere in grado di federarsi; altrimenti cosa federi? Nell’Europa com’è oggi non c’è niente da federare: la Francia ha la sua vocazione nazionalista espressa dalla grandeur, permane la vocazione tedesca alla “Grande Germania”, mentre da noi manca addirittura lo Stato se non nella dimensione prima citata del “quarto partito” e che oggi si riconosce in quel “partito del Quirinale”, da non confondersi coi Presidenti in carica, che è incarnato da una sub-struttura priva di rappresentanza elettorale – anche se il voto nella democrazia fittizia ha tutto sommato un valore secondario secondo la logica di costoro – pur esercitando una costante capacità di condizionamento su ogni passaggio decisivo della vicenda pubblica. 

 

Il paradosso è che, ad essere veicolo di quest’azione nel segno del continuismo di regime, è la falange degli indignati a comando – dai Travaglio e Flores d’Arcais sino alla pletora di “giornalisti travestiti” – che di fatto impediscono una lettura completa di quanto accaduto, alimentando ancora ostracismo e damnatio memoriae con la ripetizione delle loro giaculatorie nei talk show di cui sono stabili presenze. Costoro si sono mai occupati del fatto che il PCI manteneva centomila funzionari e militanti di partito, le cui “paghette” arrivavano da Mosca e dalla spartizione dei fondi neri di tutto l’impianto delle partecipazioni statali italiane? Non mi pare. Il tramonto di Craxi e del suo PSI è sì conseguenza forse di alcuni errori compiuti dal leader, ma anche della violenza con cui questo sistema massacra qualsiasi alterità. Fa fuori con meccanismi subdoli, a cominciare dalla completa impossibilità di essere visibili.

 

Lo strumento principale risiede nelle modalità che caratterizzano il sistema dell’informazione, improntato alla più pervicace omologazione. L’esperienza che riguarda la nostra piccola realtà di «Quaderni Radicali» e «Agenzia Radicale» ci ha rivelato come perfino la Radio Radicale rischi di omologarsi. La diaspora radicale – con la divergenza tra le due entità del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito e dei Radicali italiani in +Europa e altri – è anche l’esito di questa pressione drammatica. L’operazione che, nel nostro piccolo, facciamo con la rivista e l’agenzia on line è mantenere un profilo di linea politica. Non siamo certi che possa avere una innervatura immediata nel contesto delle situazioni politiche, ma siamo pure convinti che gli altri non hanno sbocchi rispetto ai frangenti che si stanno determinando.

 

Mantengo la convinzione che “liberale” è tutt’altro che una parola stanca o sfibrata, liberale è una parola viva. Tant’è che, quando Pannella nel pieno del movimento dei diritti civili, fra metà anni ’60 e primi ’70, rilancia la cultura liberale quella è l’unica che ha una vera forza attrattiva. Perché la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza anti-militarista, la liberazione delle donne sono tutte scelte che chiamano le persone a farsi attori attivi della vita pubblica. 

 

Vi si contrappone il baluardo conservativo di un sistema che illumina invece una scena del tutto diversa, utilizzando gli avamposti dei protagonisti del circuito mediatico e informativo propensi a innescare dinamiche totalmente sterili sul piano della compiuta consapevolezza di cosa voglia dire democrazia partecipata. Certo meriterebbe una riflessione più approfondita il giornalismo italiano, diviso tra il «Corriere della Sera» di Cairo e la diade «La Stampa»-«la Repubblica» di Elkann e si tratterebbe anche di capire che ruolo svolge la tv di Cairo «La7», perché è evidente che l’immissione di dati informativi in quella rete sono tutti indirizzati su un’unica traiettoria. 

 

Dobbiamo, insomma, chiederci perché non si riesca a creare una dialettica vera su un piano dialogico, anche di tipo conflittuale. E la risposta è che tutti costoro non si possono permettere il lusso dello Stato di diritto, della legalità reale e non di quella fasulla che ci viene proposta volta a volta. È evidente che c’è una domanda di onestà reale, che aveva riguardato noi radicali quando contestavamo la partitocrazia e l’azione invasiva (e corruttiva) dei partiti. 

 

Oggi, però, il bilancio sulla stagione di Mani pulite ci porta a dire che, avendo mirato a un unico obiettivo che era tutto politico e del tutto disinteressato alla vera lotta contro la corruzione, alla fine ci siamo ritrovati con la totale distruzione di un’intera area politico-culturale, che avrà avuto sì le sue responsabilità precise ma possedeva pure le energie intellettuali di dettare un cambiamento. Dall’altra parte, abbiamo lasciato intatto il fenomeno della corruzione tant’è che osservatori qualificati ci dicono come essa non solo non si sia attenuata, ma sia addirittura cresciuta. 

 

Eppure, in questo ventennale la televisione ci propone gli stessi attori di allora, siano essi giornalisti o magistrati, i quali sostengono ancora le fruste argomentazioni di vent’anni fa. Lo fanno solo perché devono difendere se stessi e le ragioni per cui sono ancora in circolazione e, in qualche misura, fanno capire come oramai l’avvelenamento dei “pozzi liberali” è stato talmente intenso che le falde acquifere sono pure esse infettate. Dobbiamo quindi re-inventare un modello di approccio che faccia sua questa coscienza complessiva e in questa chiave è utile leggere il ventennale di Craxi. Lo leggiamo per riproporre questa chiave interpretativa, sia in termini critici rispetto alle contro-alleanze di regime a cui egli si affidò e sia in termini positivi per l’azione e la contiguità dei motivi politico-culturali che radicali e socialisti esprimevano. 

 

Evidentemente rischi di sensibilità che erano  diverse e diverso era il tempo storico, ma resta il particolare che il bilancio di quel massacro è un bilancio disastroso, che non ha certo risolto alcuni dei nodi che sono fondamentali nella nostra attuale situazione e, tutto sommato, sia il film sia i saggi pubblicati e qualche dibattito tv, hanno avuto piuttosto la preoccupazione di archiviare il tutto al più presto senza approfondire alcunché.

 

Anche questo fa parte del gioco: la democrazia fittizia si nutre di aspetti che sembrano contenere una dialettica, ma in realtà è una dialettica fasulla perché deprivata dei contenuti di cui si dovrebbe discutere. D’altronde, l’Italia è un Paese che è stato fondato sull’ignoranza scelleratamente programmata dalle oligarchie dominanti, le quali ovunque si collochino sono tutte figlie di una stessa storia: la storia di una mancata coscienza del diritto, dello Stato di diritto e della legalità. 

 

 


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