Ascoltato in Commissione Giustizia sulla proposta, avanzata da Italia Viva e Lega, di istituire per il 17 giugno una “Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari”, il presidente dell’ANM – Giuseppe Santalucia – ha espresso la sua contrarietà. Secondo il magistrato, vi sarebbe “il pericolo di indurre sfiducia pubblica nel sistema giudiziario e dare un messaggio in controtendenza rispetto alle numerose giornate in memoria della legalità”.
Al momento del voto, sull’iniziativa si sono opposti i 5Stelle mentre il PD si è astenuto, avvitandosi in una contorta serie di motivazioni per giustificare la sua scelta. Dapprima si è rammaricato che la Giornata non indicasse il nome di Tortora (arrestato appunto venerdì 17 giugno 1983), per poi avanzare una serie di obiezioni e distinguo circa il fatto che il caso Tortora fu poi sanato in Appello per cui non si configurerebbe come un vero “errore giudiziario”. Sofismi, che hanno suscitato la comprensibile reazione della figlia del presentatore tv – Gaia Tortora – che in un tweet ha scritto: “Il PD si è astenuto. E vi prego di leggere la “motivazione” sul caso Tortora. Fate pietà, davvero. E aggiungo che la sottoscritta ha chiesto appositamente che fosse una data simbolo sì, ma senza il nome”.
È di tutta evidenza che, ancora una volta, il PD non riesce a emanciparsi dallo stato di subalternità nei confronti del sindacato delle toghe, tanto da ribadire – per bocca del senatore Franco Mirabelli – che “la proposta … è pericolosa perché aumenta il rischio di strumentalizzazioni; alla collettività potrebbe arrivare il messaggio sbagliato per cui la magistratura si atteggia a persecutore giudiziario”. Una supina aderenza alle posizioni del presidente Santalucia, che rivela pure l’incapacità di saper cogliere la rilevanza politica della potenziale convergenza fra maggioranza e minoranza in Parlamento su un atto, sì simbolico, ma propedeutico a un rinnovato approccio al tema della giustizia giusta.
Anziché preoccuparsi delle strumentalizzazioni o del “discredito” che ricadrebbe sull’ordine giudiziario, sarebbe opportuno che dall’ANM si riflettesse sulle motivazioni che fanno venir meno presso la gran parte dei cittadini la fiducia nell’operato della magistratura. Se ne possono individuare almeno tre.
La prima risiede nella netta percezione che la sua azione risponda all’influenza di fattori esterni all’obiettivo esame dei fatti: fattori esterni che rimandano a uno spirito di fazione e al pre-giudizio di natura ideologica. L’attacco all’indipendenza proviene proprio da questo, come ha ben presente il procuratore capo di Avellino, Domenico Airoma, il quale oppone al magistrato che “contrasta fenomeni”, quello che “ricostruisce fatti”, dichiarando che dopo Tangentopoli: “cominciò ad emergere una concezione del ruolo della giurisdizione che andava molto al di là dei confini sull’accertamento dei fatti”, per cui la giurisdizione diverrebbe “interprete dell’aspirazione alla legalità. Dov’è scritto? È questa la funzione della giurisdizione? Non mi pare”.
Un secondo motivo che alimenta sfiducia va ricercato nella rivendicazione acritica di una intangibilità del proprio ruolo, a scapito anche dell’individuazione dei comportamenti oggettivamente reprensibili. Una condizione che è assai simile a quella che ha demolito la credibilità dei politici, quando essi non sono stati in grado di bloccare le degenerazioni legate al sistema della prima Repubblica e che, ora, si ripropone anche per l’ordine giudiziario incapace di riformarsi da dentro a causa degli arroccamenti di potere e corporativi.
Terzo fattore che motiva il crescente iato tra la società e le toghe, è individuabile nel crescente ed esibito distacco dalla realtà effettuale, per inseguire con procedure e sentenze un modello di formalismo ideologico più che giuridico, di fatto rappresentando un sabotaggio sistematico del servizio che si attende dalla giustizia che è un pilastro dello Stato democratico. Il suo autologoramento è un danno drammatico per il cittadino che ha bisogno della terzietà del giudice per difendere i diritti negati. E questo in special modo per i più deboli e i più poveri.
Se si partisse dalla consapevolezza di questi limiti oggettivi, forse si potrebbe uscire dall’impasse delle sterili contrapposizioni e si eviterebbe di dividersi persino sulla istituzione di una giornata in memoria delle vittime della malagiustizia. Fra l’altro, il mancato favore alla proposta da parte del PD è stato accompagnato da motivazioni nelle quali riecheggia l’identico retroterra culturale che favorì l’orgia colpevolista contro Enzo Tortora. Per ricordare di cosa si trattò, riproponiamo di seguito il capitolo dedicato al caso Tortora dal libro L’Italia deviata, capitolo ripreso da un articolo pubblicato su Quaderni Radicali.
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Il caso Tortora (*)
di Luigi O. Rintallo
A farci sentire così prossimo il calvario processuale di Tortora non è tanto il suo ricorrere nei media, perché tutto sommato questi ultimi hanno operato più per cancellarne la memoria che non per preservarla, ma l’emblematicità dello “scandalo” giudiziario ad esso connesso a renderlo così attuale anche oggi.
Quel venerdì 17 giugno 1983 i carabinieri eseguirono l’ordine di arresto nei confronti di Enzo Tortora, che finiva così nell’inchiesta contro la Nuova camorra organizzata (Nco) assieme ad altre 855 persone contro le quali furono emanati dai sostituti procuratori di Napoli, Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, altrettanti mandati di cattura. Di questi ultimi, solo 640 si tramuteranno in rinvii a giudizio dopo che gli accusati restanti sono prosciolti in istruttoria, comprendendo fra essi anche una novantina di semplici omonimi. A giudicare Tortora nel 1985, nel primo dei tre tronconi in cui viene suddiviso il maxi-processo, è la decima sezione del Tribunale di Na-poli, presieduta dal giudice Luigi Sansone, che ha di fronte 243 imputati.
A settembre del 1986, nella sentenza della Corte di Appello, soltanto 77 di loro vedranno – in parte – confermate le condanne, mentre il presentatore di «Portobello» figura fra gli assolti con formula piena dopo che in primo grado gli erano stati comminati dieci anni di carcere. Basterebbero questi numeri per prendere atto che, prima ancora che a un errore giudiziario, si è forse di fronte a un plateale esempio di approssimazione e di inefficienza. Duecentoquarantatré imputati, settantasette condannati: di tre inquisiti, più di due sono stati considerati non colpevoli. Percentuali d’insuccesso come queste, in qualunque altra attività sarebbero considerate devastanti per la carriera. Non è stato così per i magistrati protagonisti del caso Tortora.
Tuttavia, poiché gli avanzamenti e le promozioni che li hanno in seguito interessati non sono certo il frutto esclusivo di automatismi, ma anche il riconoscimento di un’obiettiva capacità professionale, sarebbe alquanto semplicistico concludere che si è trattato soltanto di una improvvida catena di errori e superficialità.
A volte, la verità va ricercata nelle frasi secondarie piuttosto che nelle dichiarazioni solenni; è negli incisi o, come si diceva un tempo, nelle voci “dal sen fuggite” che fa capolino. Vale anche per quanto detto dai due pubblici ministeri Diego Marmo e Salvatore Scarpinato, rispettivamente nei processi a Tortora e ad Andreotti. Il primo, dopo otto giorni di impegno oratorio, a un certo punto rivela: “sapevamo tutti che se cadeva la posizione di Tortora, cadeva tutto il processo”; mentre il secondo – Scarpinato – nel corso della sua altrettanto chilometrica requisitoria, quasi di sfuggita, ambiguamente dichiara: “senza la morte di Falcone, questo processo non si sarebbe svolto” e, così facendo, apre un inquietante spiraglio sulle origini di quello che i giornalisti hanno de-finito enfaticamente il “processo del secolo”.
Tortora, dunque, doveva essere colpevole se non si voleva pregiudicare definitivamente un’inchiesta nata male e gestita peggio. Nata male perché fondata sull’uso improprio della legge sul pentitismo applicata non più ai reati di terrorismo, ma a quelli di camorra. In realtà, il pentitismo – filiazione delle leggi speciali ereditate dagli “anni di piombo” – aveva già dato cattiva prova di sé in due processi di un certo rilievo: quello del “7 aprile”, avviato a Padova dal pm Pietro Calogero nel ‘79, e quello “Rosso-Tobagi”, le cui udienze erano iniziate a Milano proprio nella primavera dell’83. Nel primo caso, in base alle accuse di Fioroni, i leader di Potere operaio, fra i quali Toni Negri, erano stati indicati ingiustamente come la direzione strategica delle Brigate rosse; nel secondo, si era assistito al singolare fenomeno di una pubblica accusa, impersonata da Armando Spataro, preoccupata in primo luogo di tutelare Marco Barbone, tanto da chiedere per l’assassino di Walter Tobagi la libertà provvisoria in nome di una collaborazione risultata in seguito tutt’altro che decisiva, visto che i carabinieri del generale Dalla Chiesa avevano individuato ben prima del suo “pentimento” i responsabili dell’omicidio dell’inviato del «Corriere della Sera», avvenuto il 28 maggio 1980.
Non solo Napoli, perciò, incorre – diciamo così – nell’infortunio di dare credito a criminali che, dal penti-mento, ottengono indubbi vantaggi. A Napoli, tuttavia, emerge una situazione nella quale gli inquirenti danno il peggio di sé in quanto a violazione sistematica del segreto istruttorio, ad arresti facili e a indifferenza per i tempi di carcerazione degli inquisiti. Si pensi che uno degli omonimi arrestati per “sbaglio”, accusato di un efferato omicidio, viene scarcerato dopo nove mesi: tanti ne occorsero per rendersi conto che all’epoca del delitto contestato avrebbe avuto solo tredici anni.
La permanenza in carcere di Enzo Tortora dura dal 17 giugno 1983 al 17 gennaio 1984, quando gli sono concessi gli arresti domiciliari nell’appartamento di via Piatti 8 a Milano, anche a seguito del peggioramento delle sue condizioni di salute.
I sette mesi del periodo di detenzione non trascorrono invano, ma servono a dar vita a un sensazionale tourbillon di testimonianze e confessioni, provenienti dalle fonti più svariate e con puntualità più svizzera che napoletana riversate su quotidiani e settimanali. Tortora è un affiliato della camorra di Raffaele Cutolo, col quale ha stretto un giuramento di sangue…; Tortora mercanteggia coi camorristi sotto forma di centrini ricamati in-viati al mercatino di «Portobello», che occulterebbero loschi traffici di droga…; Tortora ha il suo numero telefonico nell’agenda di un camorrista, ma nessuno si preoccupa di comporlo durante l’indagine…; Tortora cede a due sconosciuti (guarda un po’!) pacchi di droga negli studi milanesi di Antenna 3, mentre è in corso una trasmissione pro-Unicef (che cinismo!)…; Tortora a Milano è intimo del boss Turatello, che però non può né confermare né smentire perché è stato letteralmente sbudellato da Pasquale Barra, o’animale che ha dato il via all’inchiesta con Pandico, uno psicopatico che ha tentato di far fuori la madre…; Tortora è con Turatello in una foto che lo ritrae accanto a Gianni Melluso, il fornitore di coca che lo accusa anche di aver intrigato con la P2, Calvi e Pazienza (peccato che l’esistenza di questa foto risulti solo dalle parole di Melluso stesso, il quale l’avrebbe poi “bruciata”)…; Tortora si sarebbe avvicinato alla droga per lenire il dolore di una fantomatica malattia con la cocaina…; Tortora ha dirottato alla camorra i fondi per il terremoto raccolti con la beneficenza alle sue trasmissioni…
Come in un gioco di prestidigitazione l’illusionista estrae infiniti fazzoletti da un piccolo contenitore, così su Enzo Tortora si rovesciano accuse su accuse che lo ritraggono come un criminale senza scrupoli, demolendone l’immagine di giornalista e uomo di spettacolo popolare. Sulle pagine di cronaca è in scena una vera e propria orgia colpevolista, alla quale non si sottrae una signora del giornalismo italiano come Camilla Cederna, evidentemente dimentica del suo impegno civile in favore di Pietro Valpreda, accusato dal tassista Cornelio Rolandi (non un camorrista pentito) di aver messo la bomba a Piazza Fontana, e più propensa a esercitare il gossip calunnioso e denigratorio che contraddistinse la sua campagna contro il presidente Leone nel 1978 che predispose il terreno per le dimissioni anticipate del Capo dello Stato, fra i pochi disposti a impedire l’uccisione di Aldo Moro.
Camilla Cederna dà mostra del suo intuito certo non eccelso, visto che la sua frequentazione del salotto Feltrinelli non le permise di capire gli intenti eversivi dell’editore, in un articolo sulla «Domenica del Corriere» di cui è opportuno riproporre un brano:
“Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto. E non mi piaceva il suo Portobello: mi innervosiva il pappagallo che non parlava mai e lui che parlava troppo, senza mai dare tempo agli altri di esprimere le loro opinioni. Non mi piaceva neppure il modo con cui trattava gli umili: questo portare alla ribalta per un minuto la gente e servirsene per il suo successo personale era un po’ truffarla. Il successo ottenuto così si paga. Non dico che tutti quelli che hanno un successo di questo genere finiranno così, ma lui lo sta pagando in questo modo. Non ho per ora elementi per dire di più”.
E meno male, visto che l’articolo della Cederna è uscito il 2 luglio 1983, appena due settimane dopo l’arresto di Tortora. In esso sono ben rappresentate le ragioni dell’accanimento contro di lui di gran parte degli ambienti giornalistici: il presentatore è antipatico, non è dentro il “giro” giusto, non gli si perdona lo straordinario successo di pubblico ottenuto ogni venerdì sera con la sua trasmissione, che fa vedere un’Italia probabilmente sgradita all’intellighentia, fra l’altro col dente avvelenato per le opinioni anticonformiste (è con il commissario Calabresi quando questi è sotto l’attacco dei salotti milanesi allineati con le accuse di Lotta continua) e per i giudizi spesso fin troppo schietti su svariati personaggi. In fondo, a molti basta questo per tenerlo dentro e poco conta se ci siano o meno le prove nell’impianto accusatorio dei magistrati napoletani.
Fra i primi a non prendere tutto per oro colato sono invece i redattori di «Quaderni Radicali», la rivista diretta da Giuseppe Rippa, già segretario radicale e in contrasto con il partito e in polemica con Pannella. Valter Vecellio, in un pezzo pubblicato dopo la morte di Tortora nel 1988 sul n. 25 della rivista, ricorda così quella scelta:
“… fin da quell’ormai lontano 17 giugno 1983 ‘puntammo’ su Enzo Tortora e la sua innocenza. […] Det-tai personalmente una dichiarazione all’Ansa… parlai della possibilità che l’operazione potesse essere il frutto di “un tragico abbaglio”; Rippa, Pergameno e gli altri, furono subito d’accordo, appena vennero informati. […] perché lo facemmo? Forse fu una specie di istinto. Una naturale diffidenza verso operazioni giudiziarie così clamorose alla vigilia di una importante scadenza elettorale; forse le dimensioni del blitz. […] Avevamo, fin da allora, l’agenzia di informazioni quotidiana: Agenzia Radicale, quotidiano “pacchetto” di fogli ciclostilati e spillati recapitati a circa 200 giornalisti…”.
Agli articoli di cronaca, che registrano come nastri magnetici quasi esclusivamente le voci degli accusatori, cominciano così ad affiancarsi articoli di commento do-ve trapelano opinioni diverse. Esprimono dubbi anche tre “grandi firme” come Biagi, Bocca e Montanelli, ma quando Tortora accetta di candidarsi nelle elezioni europee del 1984 essi si distingueranno piuttosto per i rimbrotti che non per la solidarietà con la vittima dell’ingiustizia. Quasi infastidito dal nuovo ruolo politico assunto da Tortora, Montanelli sul «Giornale» del 7 maggio 1984 giudica sbagliata la scelta di candidarsi ritenendola una scappatoia. Bocca, il 6 giugno 1984 in prossimità del voto, lo mette in guardia su «la Repubblica» dal rischio di venire “volgarmente trombato dagli elettori”. Anche Biagi dapprima sostiene che Tortora ci rimette e poi, il 17 settembre 1986, dopo l’assoluzione e all’indomani di una intervista su Canale 5 con Bocca, lo inviterà su «la Repubblica» a ritornare alla “esistenza di tutti i giorni”, scoraggiando il suo impegno nella lotta per una “giustizia giusta”.
In effetti, la candidatura è per Tortora uno spartiacque: fino a quel momento ha vissuto come schiacciato da un assurdo meccanismo kafkiano; dopo di essa, egli diviene il simbolo cosciente del disastro in cui versa il sistema giudiziario e accetta di battersi per cambiarlo. A proporgli di correre per le liste del Partito radicale nelle votazioni per il Parlamento europeo è Marco Pannella, riprendendo così l’iniziativa contro la carcerazione preventiva. L’anno prima, su questo tema, il leader radicale aveva investito politicamente sulla figura di Toni Negri, accusato di associazione terroristica, riuscendo a farlo eleggere deputato. Il professore padovano, però, quando nel settembre 1983 la Camera votò l’autorizzazione al suo arresto, venne meno all’accordo preso di sotto-porsi comunque al processo e si recò in Francia, ottenendovi rifugio politico.
Quindi, solo a quasi un anno dall’arresto, Pannella si concentra sull’imputato Tortora, ma con lui le cose vanno diversamente. Al contrario di quanto pronosticato da Giorgio Bocca, egli viene infatti eletto trionfalmente con 485.000 preferenze a Bruxelles, ma alla cocessione dell’autorizzazione a procedere, da lui stesso richiesta, torna in Italia presenziando a un processo che scuote l’opinione pubblica per l’inconsistenza delle pro-ve a carico e la prevenzione emersa nel corso del dibattimento. Sono proprio le sessantasette udienze del pro-cesso di primo grado, con le sceneggiate dei pentiti e i testimoni a discarico zittiti o derisi, a rendere manifesta la situazione di intollerabilità cui si è pervenuti.
È a questo punto che la divisione fra innocentisti e colpevolisti assume contorni più marcatamente politici. Ai radicali si affianca infatti il PSI, il cui vice-segretario vicario Claudio Martelli (Bettino Craxi è allora presidente del Consiglio) ravvisa la necessità di istituire una commissione di inchiesta parlamentare sul caso Tortora. Con Pannella e il segretario radicale Giovanni Negri ne fanno esplicita richiesta, ma essa scatena una opposizione irriducibile, spesso sostenuta con motivazioni risibili quali l’inopportunità di un intervento del genere su un’inchiesta giudiziaria, quasi che in passato non vi siano mai state commissioni parlamentari operanti in contemporanea con processi in corso (dall’antimafia al ca-so Moro e alla P2).
Il vero e proprio fuoco di sbarramento delle altre forze politiche e dei magistrati finisce per far morire sul nascere la proposta. L’accesa polemica di quell’estate 1985 ricorda a Leonardo Sciascia l’episodio narrato nell’ottavo capitolo dei Promessi Sposi, ove Manzoni racconta il tentativo di matrimonio di Renzo e Lucia davanti al pavido curato don Abbondio, che evita di sposarli e si mette a scampanare, dando a credere che sia lui a subire una prevaricazione e non i due giovani. Scrive Sciascia sul «Corriere della Sera» del 3 agosto:
“Conoscendo l’Italia, l’Italia del Manzoni… radicali e socialisti avrebbero forse dovuto essere più cauti, meno intempestivi, aspettare, insomma, la sentenza. E non perché il loro intervento davvero costituisca una intrusione, una interferenza, un’aggressione: ma perché hanno dato luogo alla retorica nazionale di scampanare allarme per l’attentato alla libertà e indipendenza del potere giudiziario. È facile, scampanando retorica… far apparire una vittima come un privilegiato: ed è quel che si sta tentando di fare con Enzo Tortora.”
La contrapposizione politica in atto è la stessa che si profilò sette anni prima, durante il rapimento di Aldo Moro: da un lato radicali e socialisti, sostenitori della linea umanitaria; dall’altro il fronte della cosiddetta “fermezza”, imperniato soprattutto sulla DC di sinistra demitiana e sul PCI (coi giornali «l’Unità» e «Paese Sera», dove scrivono Ennio Elena e Giulio Obici, veri e propri alter ego dei procuratori). Non è un caso: sconfessare l’inchiesta che ha portato all’arresto di Tortora significherebbe infatti sconfessare la legislazione di emergenza, scaturita dal terrorismo dei doppi estremismi, sulla quale la magistratura ha potuto costruire le condizioni per esercitare un potere sempre più incontrollato modificando la natura stessa dell’ordine giudiziario, trasformatosi col tempo in un soggetto che interviene nella realtà politica e sociale non più soltanto in ragione delle sue prerogative istituzionali, ma di una gamma sempre più ampia di motivazioni che travalicano l’ambito giurisdizionale.
Della mutazione intervenuta è sintomatico il comportamento del pm Diego Marmo in aula, i cui interventi esulano dall’esibizione di prove contro l’imputato per contestargli piuttosto di essere “stato eletto con i voti della camorra”. Per replicare alle risentite querele dei radicali, Marmo affermerà su «la Repubblica» dell’8 ottobre 1985 che “il pm – anche il più mediocre – non deve perdere occasione per valorizzare i dati negativi della personalità dell’imputato, da utilizzare poi in requisitoria”, dando alla pubblica accusa un compito inedito rispetto a quello affidatole dalla legge e consistente nel trovare tutti gli elementi di prova, compresi quelli a discarico.
Dopo una camera di consiglio di appena sei giorni per 243 imputati, la corte fa proprie le richieste del pm e, il 17 settembre 1985, condanna Enzo Tortora. Come promesso in campagna elettorale, il neodeputato europeo si dimette e a dicembre, esaurito l’iter procedurale, si consegna nuovamente ai carabinieri per rimanere agli arresti domiciliari sino alla sentenza di assoluzione pro-nunciata dalla Corte di Appello il 15 settembre 1986.
Nelle ventisette udienze del processo di secondo grado si sfalda completamente il castello di accuse, ma stavolta i giornalisti sono ben poco solleciti a “informare” il loro pubblico preferendo sottacere la totale debacle delle ipotesi accusatorie. Il processo dimostra, come rilevato nelle motivazioni della sentenza redatte dal giudice a latere Michele Morello, il meccanismo di accuse a catena che i pentiti concordavano fra loro, dopo gli in-contri nella caserma Pastrengo, allo scopo di garantirsi trattamenti di favore da parte degli inquirenti. Prima ancora di poterle leggere (saranno rese pubbliche il 16 di-cembre 1986), il pubblico ministero Armando Olivares dichiara al Tg2 del 16 settembre:
“Ha vinto la camorra. Quando dico questo… mi riferisco al principio che questa sentenza ha accolto: quello che in mancanza della prova documentale non ci può essere condanna. Diciamolo chiaramen-te, la mia opinione è che oggi i soli pentiti veri siano i giudici della quinta sezione penale della Corte d’appello. Non escludo che i miei colleghi possano aver subito delle pressioni indirette. Non penso che qualcuno sia andato a dir loro “assolvete Tortora”. Però intorno a quel processo si era creato un clima che ho denunciato pubblicamente fin dai primi giorni. Siamo alla fine, quando la politica entra nelle aule di giustizia. Stiamo scivolando su una brutta china, prevedo conseguenze pesanti. Il garantismo? Non deve essere esasperato: c’è la ragion di Stato.”
Per questa dichiarazione non vi sarà alcuna reazione da parte del Csm che, pure, non aveva esitato a votare, con ventidue voti su trenta, un documento di censura per le critiche rivolte da esponenti politici alla sentenza di condanna del settembre di un anno prima. Ora che ai giudici di secondo grado viene lanciata l’accusa di essersi lasciati condizionare, anche dall’interno della corporazione non giunge alcun fiato. Prevale su tutto la po-lemica contro la politica, rea di essersi intromessa su come è amministrata la giustizia nel Paese. Qualcuno arriva perfino a recriminare che “neanche il fascismo arrivò a tanto…”, mentre altri – come il prefetto Riccardo Boccia – conclude che così “a Napoli tornerà la camorra, come prima”.
C’è, tuttavia, da chiedersi se davvero il maxi processo sia davvero servito a combattere la criminalità organizzata. Sovente, da chi sosteneva le ragioni del blitz, è stata rivolta la domanda: perché proprio Tortora? Se i pentiti avevano bisogno di coinvolgere personalità famose per dare maggior valore alla loro collaborazione con la giustizia avrebbero potuto indicare tante altre persone. Così dicono in molti, ma sono pochi a porsi un altro tipo di domanda: perché impostare un processo di tal fatta? Da cui scaturiscono una serie di altre considerazioni circa la possibilità che esso potesse servire per distrarre l’attenzione da altre attività criminose e, soprattutto, attribuire a una classe politico-amministrativa di estrazione campana un intento di rigore in grado di occultare le sue oggettive responsabilità negli scandali che avevano interessato la regione in quegli anni: dal caso Cirillo alla ricostruzione del terremoto del 1980, con i collaudi e gli arbitrati affidati a membri di quegli uffici giudiziari preposti a svolgere funzioni di controllori.
Quali che siano le origini del processo a Tortora e le sue eventuali ragioni extra-giudiziali, fatto è che la sua vicenda contribuisce come nessun’altra a far capire lo stato della giustizia italiana, scoprendo un mondo di sopruso e di arbitrio. Se in passato se ne aveva avuto sol-tanto una vaga percezione, grazie anche a film meritevoli come Detenuto in attesa di giudizio (1971) interpretato da un eccezionale Alberto Sordi diretto da Nanni Loy ed ispirato alla vicenda di Lelio Luttazzi ingiustamente inquisito nel 1970, ora è maturata la consapevo-lezza che la giustizia sia amministrata più in nome degli interessi di una corporazione, che non in quello dei cittadini.
I referendum sulla “giustizia giusta”, promossi dai radicali nella primavera 1986, saranno così i primi della storia repubblicana a ottenere una maggioranza schiacciante di voti favorevoli: l’80,5 % di SI conseguito il 9 novembre 1987 dal quesito sulla responsabilità civile dei magistrati, palesa la sfiducia e lo scoramento del popolo italiano nei confronti del sistema giudiziario.
Dal suo interno, tuttavia, proviene una lettura che stenta a prendere atto di ciò e preferisce interpretare il referendum, con le parole del procuratore Olivares super-applaudito al congresso dell’Anm, come “una paurosa involuzione democratica tesa a neutralizzare l’azione dei magistrati”. Nonostante la conferma dell’assoluzione di Tortora in Cassazione del 13 giugno 1987, il pm del processo d’appello torna ancora alla ca-rica e sul «Messaggero», il 21 novembre, dichiara:
«Un errore giudiziario non è solo quando si condanna un presunto innocente. È anche quando si assolve un presunto colpevole. Come in questo caso. Tortora è colpevole.»
E prosegue chiamando alla lotta le toghe, che non devono lasciarsi intimidire dai politici, i quali – a suo dire – screditerebbero la magistratura, senza rendersi conto che ad aver gettato il discredito sull’intera giustizia italiana sono stati invece i comportamenti assunti dentro la corporazione, che esulano anche da quel minimo sen-so di responsabilità richiesto da una funzione quanto mai delicata.
Gli ultimi mesi della vita di Tortora sono contrassegnati, a livello politico, da altre amarezze. Il 12 aprile 1988 è emanata la nuova legge sulla responsabilità civile dei giudici che vanifica totalmente gli obiettivi del referendum, con una normativa che di fatto solleva i giudici da qualunque onere.
Il 20 aprile un Tortora, ormai stanco e indebolito dal tumore che lo consuma, interviene via telefono alla trasmissione di Rai 2 Il testimone, condotta da Giuliano Ferrara. In studio i magistrati napoletani Armando Olivares e Alessandro Criscuolo, ex presidente dell’Anm: l’ultima occasione di confronto con persone che Tortora non stima. Da essa si produrrà un ennesimo, paradossale esempio di malagiustizia: Giuliano Ferrara dovrà, infatti, subire un lunghissimo processo per calunnia, perché querelato dai magistrati Lucio Di Pietro e Felice Di Persia da lui indicati come responsabili di una valutazione erronea. La causa si concluderà solo dieci anni dopo, con la piena assoluzione del giornalista.
Il 18 maggio 1988, Enzo Tortora muore a sessant’anni non ancora compiuti. L’indomani così lo ricorderà Leonardo Sciascia sul «Corriere della Sera»:
“Ero uno dei pochi che avevano subito creduto nella sua innocenza, e nettamente lo avevo dichiarato, riscuotendo il rimprovero di qualche benpensante. Per come potevo, ho poi seguito e incoraggiato la sua battaglia. Una battaglia che ha saputo combattere impeccabilmente, con rigore e con dignità. L’ho rivisto dopo molti mesi, sabato scorso. Era irriconoscibile, parlava stentatamente, atrocemente soffriva; ma parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione.”
Ancora una volta il pessimismo di Sciascia risulterà purtroppo fondato. Anche dopo la morte, non mancheranno gli oltraggi per Tortora. Intervistato dal settimanale «Gente», Gianni Melluso ribadisce nel novembre 1992 tutte le sue false accuse. Le figlie di Tortora lo querelano per diffamazione aggravata e la Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora chiede un risarcimento. Due anni dopo, il 19 dicembre 1994, il giudice per le indagini preliminari Clementina Forleo assolve Melluso dall’accusa, sostenendo che l’assoluzione di Tortora rappresenta, in realtà, “soltanto la verità processuale e non anche la verità reale”. A distanza di due mesi, il sostituto procuratore generale di Milano Elena Paciotti respinge la richiesta di riapertura della causa presentata dalle querelanti e redige la seguente motivazione di non facile lettura:
“L’assoluzione di Enzo Tortora con formula piena non è conseguenza della ritenuta falsità delle dichiarazioni di Giovanni Melluso e di altri chiamanti in correità, ma della ritenuta inidoneità delle stesse a costituire valida prova di accusa. Di qui la congruità rispetto al caso in esame del richiamo alla ovvia impossibilità di porre un’equazione tra assoluzione del chiamato in correità [ndr.: Tortora] e la penale responsabilità per calunnia del chiamante [ndr.: Melluso].”
Quasi che le parole del giudice Michele Morello siano state dette al vento e non in una sentenza passata in giudicato. Forleo, Paciotti… una tradizione che continua, in nome dell’intangibilità delle toghe, per le quali continua a suonare quella fanfara di sostegno che Tortora stesso aveva ben descritto sul quotidiano «Reporter», il 24 settembre 1985, pochi giorni dopo la sentenza che lo definì “cinico mercante di morte”:
“Nel vecchio varietà, quando la sciantosa era in crisi e lo spettacolo faceva acqua, si dava ordine ai macchinisti di buttare giù il fondale con l’immagine dell’Italia turrita e cinta regolarmente di tricolore. “Evviva Trento e Trieste” si gridava allora: e si otteneva un applauso “spontaneo”, irrefrenabile, che salvava lo spettacolo… La gente, uscendo, dimenticava quasi che lo spettacolo faceva schifo. Certe abitudini gli italiani, o meglio certe corporazioni, le hanno conservate. Alcuni mettono fine a una discussione facendo scendere oggi, dal fondale, l’immagine della Magistratura cinta di lauri, la bilancia (assai sbilanciata, e con pesi spesso falsi) in mano, e all’inno di “viva la Magistratura che s’impegna sul difficile fronte ecc.…” si attacca la fan-fara consueta.”
La fanfara torna a emettere la sua musica sgangherata anche nel 2023, per contrastare ancora una volta l’improrogabile riforma necessaria per ridare il prestigio perduto alla magistratura. A guidare la banda ancora una volta il sindacato delle toghe, l’Anm, il cui presidente Giuseppe Santalucia apre un fuoco di sbarramento alle proposte avanzate dal ministro di Giustizia Carlo Nordio.
Difficile stabilire quale sia l’effettivo grado di rappresentatività dei vertici Anm rispetto all’insieme di tutti i componenti dell’ordine giudiziario, ma è certo che da essi nel corso di questi decenni non è mai pervenuto un impulso a mutare lo stato disastroso in cui versa la giustizia in Italia, dove ai cittadini è di fatto negato un servizio fondamentale.
A questo si aggiunga che la lunga sequenza di veri e propri scandali che hanno riguardato alcuni organi giudiziari – a cominciare dal Csm per finire a varie procure nell’occhio del ciclone a causa di gravissime irregolarità procedurali – ha contribuito a minare la magistratura medesima, in quanto pilastro indispensabile per una democrazia improntata allo Stato di diritto.
Respingere pregiudizialmente le riforme che dovranno essere approvate per risolvere la principale emergenza di un Paese, consistente appunto nel non poter contare su una magistratura dotata di effettiva terzietà né tanto meno in grado di garantire giustizia in tempi adeguati, significa soltanto dar prova del reale intento reazionario insito nella difesa tutta corporativa del proprio ruolo.
Gli stessi limiti che sono stati all’origine della divaricazione tra gli organi rappresentativi della magistratura e Giovanni Falcone, contro il quale proprio molti suoi colleghi compirono un processo di delegittimazione – morale e professionale – in nome sempre della testarda salvaguardia di una condizione di privilegio incompatibile con i compiti assegnati alla magistratura dalla Costituzione.
* (da Quaderni Radicali n. 102 speciale novembre 2008)
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