La legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita è nuovamente sul banco degli imputati. Ad accusarla è una coppia che, a causa di una malattia genetica che potrebbe essere ereditata dai propri figli, ha rifiutato l'impianto degli embrioni prodotti con le tecniche di fecondazione artificiale che potrebbero aver ereditato i geni “difettosi”.
Una decisione in pieno contrasto con quanto stabilito dalla legge 40, secondo cui anche gli embrioni portatori di malattie devono essere trasferiti nell'utero della loro madre naturale. La coppia non si è, però, limitata a rifiutare questo trasferimento, chiedendo anche che i propri embrioni siano destinati alla ricerca scientifica e opponendosi ad un altro divieto contenuta nella legge 40, secondo cui non è possibile sperimentare sugli embrioni, nemmeno su quelli che non verranno mai trasferiti nell'utero materno.
A fronte di questa situazione il tribunale di Firenze ha deciso di rinviare all'esame della Consulta la costituzionalità di questi due divieti, che violerebbero non solo la dichiarazione europea dei diritti umani, ma anche la Costituzione, nei punti in cui tutela i diritti inviolabili dell'uomo (articolo 2), la promozione della ricerca scientifica (articolo 9), l'inviolabilità della libertà personale (articolo 13) e la tutela della salute senza trattamenti sanitari obbligatori se non per disposizione di legge (articolo 32).
Per l'avvocato Filomena Gallo, segretario dell'Associazione Luca Coscioni, “questo rinvio è una vittoria. Il tribunale sancisce il diritto a scegliere se sottoporsi a un trattamento sanitario o no, in qualsiasi momento, e la libertà della ricerca”. Anche Antonio Palagiano è d'accordo con la decisione del tribunale fiorentino.
Secondo il presidente della commissione d'inchiesta sugli errori sanitari non affrontare il problema degli embrioni che non vengono trasferiti in utero rischia di trasformare l'Italia nella “più grande banca del mondo di embrioni abbandonati”, per la cui conservazione, tra l'altro, continuano ad essere spesi soldi anche se “dopo un certo numero di anni perdono vitalità e non sono più utilizzabili”.
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