Va delineandosi nelle campagne elettorali italiane una situazione che è molto simile a quei giochi di prestigio nei quali l’illusionista, attraverso accorte domande, fa dire allo spettatore quello che gli serve per stupire il pubblico. Allo stesso modo, per quanto riguarda le comunali a Roma, sembra che il circuito di giornali e media, in mano agli esponenti di quella finanza che mai scendono nell'agone politico, stia preparando l’esito gradito.
Un ballottaggio tra la candidata del M5S, l’avvocato Virginia Raggi, e Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia-An. Come vada a finire tra le due conta sino a un certo punto: l’importante è che al secondo turno la scelta sia tra loro. Tanto per gettare un po’ di fumo negli occhi e spacciare la dose necessaria di democrazia fittizia, condita in salsa politically correct (due donne, due giovani: tutto fa brodo). Un modo come un altro per anestetizzare il corpo sociale e poter continuare a tirare le fila indisturbati.
Per entrambe le candidate sarebbe comunque l'ideale: ovviamente chi vince canterà le magnifiche sorti e progressive che l'attendono; chi perde si intesterà comunque lo "straordinario successo" di essere giunto al ballottaggio. Il discorso cambia qualora il ballottaggio non avesse questa combinazione, ma un’altra. Il che potrebbe comportare questi effetti: innanzi tutto si avrebbe una smentita della scenografia allestita e quindi, a seconda dei casi, riflessi di vario tipo sulle forze politiche.
Ad esempio, una vittoria di Raggi su Giachetti o Marchini assumerebbe altro valore rispetto a una vittoria su Meloni, dal momento che inciderebbe anche sul “renzismo”. Così come, d’altra parte, un’eventuale sconfitta di Raggi ad opera di Giachetti segnerebbe un indubbio successo di Renzi. Qualora poi al secondo turno non figurassero né Raggi, né Meloni registreremmo un vero rivoluzionamento delle aspettative, prefigurando scenari del tutto imprevedibili. E lo stesso avverrebbe nel caso di una sconfitta dell’esponente del M5S da parte di Marchini, perché si aprirebbe la possibilità di mettere da parte tutti gli attuali leader del centrodestra, compreso Salvini che – a quel punto – difficilmente Marchini vorrebbe al suo fianco come supporter.
Se c’è un dubbio nell’operazione avviata dal leader leghista, non riguarda tanto la tempistica o la fattibilità di sostituirsi a Berlusconi nella leadership della coalizione. Piuttosto riguarda la sostenibilità di una guida nazional-popolare sul modello lepenista, nel senso che essa parrebbe puntare più che altro alla conquista di un ruolo da oppositore di sua maestà: del resto, nulla vieta pensare che Salvini gradisca rivestire i panni del PCI di un tempo, che si ritagliò sui banchi della minoranza parlamentare la sua bella quota di potere in condominio con il governo.
Che ciò sia in definitiva la prospettiva di fondo è dimostrato, del resto, da quello che è successo in Francia, dove il Fronte Nazionale ha sì aumentato i voti, conquistato regioni e vinto le elezioni europee, ma continua a non esercitare ancora un ruolo di governo reale (forse nemmeno troppo desiderato).
Per quel che riguarda la Lega, su di essa pesano ancor più gravi contraddizioni perché da un lato il suo leader ha evitato di mettersi in gioco in prima persona per la poltrona di Palazzo Marino, preferendo consociarsi con l’ex ministro del governo Renzi, Maurizio Lupi, e – dall’altro – ha “usato” la leader di Fratelli d’Italia per scardinare il ruolo finora esercitato da Berlusconi. Una bella dose di spregiudicatezza che lo accosta al suo alter ego oggi inquilino di Palazzo Chigi…
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