Nella discusione apertasi con le ormai famose dichiarazioni rilasciate da Massimo D’Alema al Corriere della Sera, qualche giorno fa, da molte parti si è si è indulto al malvezzo (di origine multiculturale) di spostare i termini degli interventi sui dati psicologici e caratteriali dell’illustre intervistato, al quale, a dir la verità, non è parso vero – questa almeno è stata l’impressione di chi scrive – di stare al gioco, avviato proprio da un intervistatore che sa il fatto suo.
Si è persa cosi un’occasione di grande portata per aprire (finalmente!) quel dibattito approfondito che proprio i temi dell’intervista ben meritavano, “ offrendo così” lo spunto a Geppi Rippa, discutendone con Antonio Marulo, per sottolineare e ribadire quanto “l’irrisolta questione liberale sia alla base dello stato comatoso in cui versa la sinistra in Italia” (vedasi la rubrica “Maledetta politica” di questa settimana).
Alle spalle di un Massimo D’Alema che richiama la genesi del PD, cioè la confluenza in un nuovo contenitore della “Margherita” (post sinistra democristiana) e del PDS (post sinistra comunista) sta infatti una storia - e non meno una filosofia (politica) – che hanno costituito il tessuto di fondo della vicenda delle forze politiche italiane dal secondo dopoguerra ad oggi, anche se un’astuta convivenza tra di queste è riuscita a coprirla sotto una compatta cortina del silenzio, che nemmeno noi radicali siamo invero riusciti a rompere nonostante continui tentativi dagli anni settanta in poi.
Tanto è vero che nemmeno adesso, nemmeno l’intervista a D’Alema, alla quale il presente intervento è dedicato, è riuscita a sollevare il velo che avvolge l’oggetto misterioso.
Occorre fare un passo indietro, piuttosto lungo, risalendo al tempo dell’immediato dopoguerra, quando il Partito Comunista Italiano era alla ricerca di una “linea” che ne consentisse una possibile navigazione proprio in un paese che, come l’Italia, nella divisione in due del mondo - effettuata alla conferenza di Yalta del 1945 fra i four big - era stato assegnato alla parte occidentale, della quale costituiva un bel pezzo di confine… sensibile, stante anche la presenza al suo interno proprio di un forte PCI (il più grande partito comunista dell’occidente, molto legato proprio all’internazionale moscovita).
E Togliatti ebbe la genialità di individuare un punto di partenza, una base con un non indifferente fondamento sociale sulla quale rendere possibile per il suo partito un percorso politico operativo di lunga durata: il famoso “dialogo con i cattolici”, sotto il quale stava la possibilità di dare senso politico e svolgere attività politica a un blocco popolare sociale (un blocco storico nel senso gramsciano) della classe operaia (PCI, PSI, CGIL in funzione di cinghia di trasmissione) e di quella contadina (gravitante e gestita dalla DC, dalle parrocchie e dal mondo cattolico).
C’era uno stato sociale da costruire, a partire dai fondamenti costituzionali; c’era la possibile prospettiva di una strada comune di governo lastricata dal “fronte popolare” (già sperimentato in Francia ancora prima della guerra ed in atto nei paesi dell’est); c’era alle spalle la realtà della “Resistenza” che aveva visto tutte le forze politiche democratiche unite contro il fascismo; c’era la presenza nella DC di una consistente componente sociale… c’era anche la possibilità (da non sottovalutare) di un ‘operare politico fondato su un doppio binario.
Da un lato cioè c’era la possibilità di un operare quotidiano nel quale presentare un partito di opposizione, particolarmente importante per le battaglie sociali e sindacali e utilissimo sul piano elettorale, e c’era dall’altro un piano di fondo e di sfondo nel quale prevalevano le considerazioni storiche, emergevano i principi giuridici e socio-giuridici che costringevano alle intese e in particolare la comune avversione per i valori (assai… rischiosi) della tradizione liberale e laica (si pensi alla gestione della stato, al peso di un vero individualismo fondamento delle battaglie per i diritti civili, al ruolo dei partiti, al rapporto partiti-istituzioni, alle prospettive aperte da un liberalismo di stampo einaudiano, che in Europa aveva un suo peso, tanto da prevalere ad esempio nella ricostruzione postbellica della Germania…).
Certo non mancavano dubbi e contraddizioni: la presenza di una componente socialdemocratica e di una tendenza anticlericale nel mondo socialista, l’alto patrocinio del Vaticano su tutto il mondo cattolico italiano, la capillarità diffusa del cattolicesimo sociale organizzato… Ma il progetto partì e… nelle sue ultime conseguenze è ancora presente in qualche modo nella nostra vita politica nazionale.
Partì con un’accorta condiscendenza, mai dichiarata e meno che mai formulata al livello dei principi da parte della DC, che utilizzò questa posizione o se si vuole questa opposizione che non andava al di là di un certo limite e che consentiva utili acquisizioni.
La prima e clamorosa fu l’inserimento nella costituzione dei Patti lateranensi sui rapporti tra Stato e Chiesa, che significava l’inserimento a pieno titolo della poderosa struttura sociale cattolica nell’Amministrazione pubblica (scuole di ogni livello, cliniche, ospedali, strutture assistenziali finanziate, ben funzionanti, forti di consolidata esperienza e di un insediamento sociale consolidato da antica data…) oltre all’inserimento di fatto nello stato sociale di principi della dottrina cattolica, canoni interpretativi di leggi e regolamenti, prassi consolidate e all’ampia possibilità di offerta di lavoro di carriera…
Si badi bene, non si vogliono qui formulare o lasciar supporre giudizi di merito, ma far rilevare soltanto come l’idea (o, se si vuole, la furbizia) di poter gettare – sulla base del dialogo con i cattolici - le basi di un blocco storico sul piano sociale e di un fronte popolare su quello politico fosse, in realtà, assai meno una speranza che un’illusione.
In effetti la DC di fatto affidò l’operatività del “dialogo” al quotidiano tran tran della gestione delle pubbliche amministrazioni e degli organi giudiziari, alla macchinosità sconfinata e assolutamente inconcludente dal punto di vista rivoluzionario o se volete anche più modestamente riformista…
Ricordo sempre che un mio amico fu una volta ricevuto da un Presidente della Repubblica democristiano al quale egli venne esponendo rilevanti e ben fondati motivi di doglianza sui danni in materia di costituzione tradita, di diritti fondamentali ignorati, di comportamenti amministrativi inammissibili… e alla fine il Presidente, che fino a quel momento aveva silenziosamente annuito, allargò le braccia e proruppe in un “quanto hai ragione, amico mio, quanto io stesso ogni giorno mi trovo di fronte a queste situazioni che tu giustamente denunci…cerco di muovermi, di fare qualche cosa… ma tutto si perde non si sa nemmeno bene come, tutto si invischia….”.
Chi scrive, in ragione del suo lavoro nel campo della giurisdizione cosiddetta contabile, ha avuto a che fare per decenni con un ampio settore della legislazione amministrativa: nuove leggi non mancavano, ma la struttura era sempre la stessa: un blocco iniziale di articoli che descrivevano innovazioni e riforme, ma con l’immancabile clausola di un’entrata in vigore a data futura e un seguito di norme transitorie, a soddisfacimento di modesti interessi di natura corporativa, operative immediatamente. Nella sostanza la pubblica amministrazione è rimasta sempre la stessa, con qualche correttivo messo in marcia a fatica…
Così si è arrivati al 1976 e al compromesso storico, che ormai era ridotto al tentativo di un governo di coalizione, che fallì miseramente, senza nemmeno uno straccio di dibattito pubblico.
E perfino dopo il crollo del muro di Berlino che mette fuori uso il PCI e dopo tangentopoli che cancella dalla scena politica i partiti della tradizione postbellica e in particolare la DC e il PSI, il mito della sinistra democristiana, dell’uscita dalla crisi della democrazia italiana con il dialogo o, se volete, il connubio tra questa forza politica e quel che restava del PCI, quale ne fosse il nome, persiste imperterrito, intramontabile, immarcescibile (come si diceva una volta)… e arriva la Margherita e arriva l’Ulivo e arriva il PD e arriva alla fine uno dei “boy scout” (nota organizzazione giovanile cagttolica, almeno in Italia), arriva un boy scout con i calzoni corti che pretende di mandare tutti a casa, anche se poi nell’operare politico non fa poi troppi danni e se personalità al di sopra di ogni sospetto come Biagio De Giovanni, Ermanuele Macaluso e perfino Gianfranco Spadaccia (vedi l’ultimo numero di Quaderni Radicali), dietro ragionamenti più articolati, qualche merito glielo riconoscono.
De Giovanni, Macaluso, Spadaccia per non parlare del Presidente Napolitano, che su Renzi ha puntato moltissimo… ma D’Alema no: D’Alema gli rimprovera di tradire il dato fondante del PD, immancabilmente la fusione tra sinistra democristiana e PDS; D’Alema gli rimprovera di tradire il principio dell’unità della sinistra, che ovviamente comporta il corollario di non avere nemici a sinistra…(una delle remore più pesanti che hanno pesato sul PCI e sul dopo).
Non sono un dalemiano, ma non mi viene certo in mente di mettere in dubbio le qualità di uomo di governo di Massimo D’Alema; sono sempre stato anticomunista, ma penso che esista una distinzione tra l’essere anticomunisti e il riconoscere la necessità di non perdere uomini che di qualità non mancano. Non è una banalità ricordare che la politica è mediazione e transizione.
Bèh! Certo un problema c’è, È ovvio. Perché, se è vero che per litigare bisogna essere in due, è altrettanto e ancora più vero che l’enunciato principio è indispensabile anche per andare d’accordo. Occorre la forza morale di saper fare dei passi indietro, più difficili e stranianti soprattutto per chi non riesce a staccarsi dal passato.
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