Il tempo passa, cambiano le stagioni, i governi pure insieme con gli inquilini di Palazzo Chigi, ma il problema resta e si ripropone alla prima buona occasione. Si tratta dell’ormai cronico scontro politica/magistratura che questa volta vede Matteo Renzi vestire i panni dell’insolente che si permette di opinare e minare l’integrità e l’onore della categoria. Occasione di scontro sono state le inchieste sul petrolio lucano con i relativi strascichi politici sul caso Guidi ancora in corso. Da qui il consueto dibattito sui tempi e i modi della giustizia o ingiustizia, a seconda di come si vuole vederla, sul cattivo funzionamento della macchina giudiziaria, sugli effetti fin troppo politici di certe inchieste bollate come a orologeria, sulle riforme necessaria che tanti promettono e nessuno fa.
Nell’ultimo numero di Quaderni Radicali si è fatto, fra l’altro, il punto con una articolo a firma di Ermes Antonucci, dal quale emerge il bilancio dell’ennesima occasione mancata per centrare i reali termini della questione, salvo poi doverne prendere atto quando si diventa “vittima” di certi meccanismi perversi.
di Ermes Antonucci
Alcuni bagliori di luce ci sono, ma per il resto il bilancio del governo Renzi in materia di giustizia assume la forma - solita - di un’altra grande occasione mancata. Le riforme, poche seppur positive, sono in gran parte frutto di percorsi legislativi avviati dai precedenti governi: al premier fiorentino va dunque riconosciuto senz’altro il merito di averli portato a compimento, ma della radicale “rottamazione” giudiziaria, prefigurata dal renzismo sin dalle sue origini, si è visto ben poco.
Ciò che emerge con maggiore rilevanza, anzi, è che in termini di rapporti tra politica e magistratura la concezione di fondo del premier risulta essere del tutto in continuità con la pericolosa prassi degli ultimi vent’anni: potere ai magistrati, e guai a toccarli...
...Eccezion fatta per i suddetti interventi legislativi - gran parte dei quali incardinata, come detto, su percorsi avviati già dai precedenti governi -, il restante panorama delle riforme in campo giudiziario è piuttosto scarno. Restano impantanati nelle aule parlamentari, infatti, i ddl che riformano il processo penale, quello civile, la prescrizione, il codice antimafia e la magistratura onoraria.
Anche la tanto annunciata rottamazione della disciplina delle intercettazioni, finalizzata ad interrompere uno dei tanti fronti della degenerazione mediatico-giudiziaria, vietando la pubblicazione di intercettazioni prive di rilevanza penale e a volte anche pubblica, non è stata purtroppo compiuta. Il provvedimento, contenuto nel ddl di riforma del processo penale varato dalla Camera ed ora in discussione al Senato, non contiene infatti alcuna disposizione che limita l’uso e la pubblicazione delle intercettazioni, ma prevede invece semplicemente una delega al governo, al fine di stabilire prescrizioni che incidano sulle “modalità di utilizzazione delle captazioni”, con riguardo “alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e conversazioni di persone occasionalmente coinvolte”. Nel testo di legge, insomma, vi è soltanto l’affermazione di un principio, peraltro di buon senso, e nonostante la solita ondata di critiche a priori avanzata dall’Anm e dagli organi di stampa più “sensibili” alla causa, tutto resta ancora in sospeso, in attesa che sia il governo a chiarire il da farsi.
Molto delicata, se non addirittura cruciale, risulta essere la questione del mantenimento o meno dell’udienza filtro, quella in cui il giudice, nel contraddittorio tra le parti, decide quali intercettazioni vadano trascritte in quanto utili ai fini processuali e quali invece vadano distrutte in quanto non pertinenti. L’udienza “stralcio” ha evidenziato negli ultimi anni tutti i suoi limiti nell’impedire la fuoriuscita e la pubblicazione di intercettazioni prive di rilievo giudiziario, e questo soprattutto a causa del suo spostamento nel tempo ad opera di pm e giudici delle indagini preliminari, che finisce per consentire la conoscibilità e la pubblicazione delle intercettazioni del tutto irrilevanti ai fini delle indagini.
Piuttosto che affrontare il problema di petto, prevedendo ad esempio sanzioni nei confronti dei magistrati per il mancato rispetto dei tempi prescritti, il parlamento ha voluto muoversi nella direzione dell’eliminazione dell’udienza, delineando nella delega un non chiaro diverso meccanismo di selezione delle intercettazioni, “nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine”. Toccherà quindi al governo, una volta approvata in via definitiva la legge delega, decidere come intervenire nel concreto. Il modo però con cui David Ermini, responsabile giustizia del Pd, ha risposto al deputato forzista Francesco Paolo Sisto (che aveva accolto il voto favorevole alla delega rivolgendosi ai dem con un ironico “Benvenuti tra noi!”), commentando con un quasi indignato “Mi dispiace, ma non siamo proprio uguali a voi perché noi le intercettazioni non le tocchiamo ma le lasciamo in mano alla magistratura”, fa capire l’approccio ideologico di fondo con cui il partito di maggioranza intende affrontare l’intera questione intercettazioni...
...Magistrati e politica: nulla cambia
La politica è anche fatta di messaggi, simboli. Matteo Renzi, che ha basato la sua intera ascesa politica attorno allo storytelling della rottamazione, è il primo, in fondo, a saperlo. Lui, che alla conferenza stampa di fine anno proietta le slide governative con sparse immagini di gufi, simboli dei disfattisti che remano contro la ripresa del Paese. Ecco, è proprio questo Renzi ad aver deciso, invece, di non inviare alcun messaggio che potesse far intendere un cambiamento di rotta nei rapporti tra politica e magistratura, inteso a porre fine all’evidente invasione di campo da parte della seconda sulla prima.
Quella di Vincenzo De Luca è sicuramente stata la vicenda pubblica che più di tutte ha ribadito l’esistenza di un incredibile squilibrio di forza tra potere politico e potere giudiziario (codificato dal legislatore). Eppure alla tenace difesa nei confronti del governatore campano, Renzi non ha mai voluto accompagnare - probabilmente per timore - alcuna considerazione sulla necessità di una modifica della normativa al centro dell’intero caso, né tantomeno avviare con essa una riflessione profonda della delicata questione dei rapporti tra politica ed organi giudiziari. Una normativa, quella che porta il nome di Paola Severino, frutto di una stagione in cui la classe politica, allo sbando e commissariata dall’avvento dei tecnici, assecondò in maniera opportunistica le tendenze più manettare ed antipolitiche provenienti dall’opinione pubblica per costruire inesorabilmente attorno a sé tutte le condizioni per un suo ulteriore assoggettamento all’inarrestabile potere giudiziario, con gravi ripercussioni sui già confusi equilibri democratici del Paese.
Una legge, dunque, che sarebbe da cambiare domani mattina, se solo Renzi volesse ristabilire un certo ordine costituzionale tra i poteri dello Stato, intenzione però mai manifestata. Solo una volta il premier si è infatti concesso una netta presa di posizione: nell’agosto scorso, con la stoccata sul Parlamento che “non è un passacarte delle procure” (caso Azzolini). Ma a spazzare via nel dimenticatoio questo richiamo ci ha pensato la prassi con cui Renzi, in perfetta continuità con la politica del “passato”, ha costantemente riaffermato la sudditanza del potere politico a quello giudiziario.
Ciò è accaduto con l’elevazione a sorta di deus ex machina di Raffaele Cantone, capo dell’Autorità nazionale anticorruzione, chiamato dal premier ad intervenire ogni qualvolta siano emersi casi di malapolitica, per riconsegnare alle istituzioni l’onore che dovrebbe appartenere loro. Expo, Mafia Capitale, Giubileo, crisi bancaria… Per non parlare delle vacanze nei posti ministeriali o delle candidature alle elezioni nelle grandi città e nelle regioni. Cantone (al di là di polemiche, invidie, accuse di delegittimazione e gelosie interne alla categoria, manifestatesi anche in occasione del congresso della Associazione Nazionale Magistrati) è ovunque, segno che Renzi ha voluto proseguire, se non addirittura rafforzare, la retorica demagogica giustizialista, che di fronte all’emergere di casi giudiziari richiede il commissariamento sistematico della politica e la consegna nelle mani della magistratura di una funzione salvifica di rinascita della moralità pubblica...
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