Il giornalista del «Corriere della Sera» Walter Tobagi fu ucciso a trentatré anni il 28 maggio 1980 da un commando di giovani terroristi, cresciuti nel settarismo degli anni ’70 che pervadeva gli ambienti della estrema sinistra milanese.
Fra i suoi componenti vi erano i figli di editori e giornalisti: a capeggiarlo era Marco Barbone, per il quale il procuratore Armando Spataro chiese al processo di concedere immediata libertà per il contributo dato con il suo pentimento.
Fu una scelta che suscitò sconcerto nell’opinione pubblica, generando una dura polemica tra la magistratura e il leader socialista Bettino Craxi, convinto della irrilevanza del pentimento di Barbone in quanto gli inquirenti disponevano già delle informazioni atte a individuare i responsabili dell’assassinio, compiuto per sopprimere una voce troppo dissonante dal conformismo giornalistico di quegli anni.
Oggi il caso è tornato nelle pagine di cronaca giudiziaria, dopo che si è concluso il processo intentato dall’ufficiale dei Carabinieri Antonio Ruffino, assai legato all’epoca alla Procura di Milano, contro il giudice Guido Salvini.
Il colonnello Ruffino si era infatti sentito diffamato da alcune dichiarazioni pubbliche del giudice Salvini rese nel 2018, in occasione della presentazione del libro Vicolo Tobagi, scritto da Antonello De Stefano fratello di uno degli attentatori del giornalista, Manfredi De Stefano, morto in carcere nel 1984.
In quella occasione, il giudice Salvini aveva evidenziato come fossero state trascurate delle informative dei carabinieri, redatte in base alle notizie fornite dall’informatore Rocco Ricciardi, che – secondo il giudice – avrebbero potuto evitare che il disegno omicida fosse portato a termine.
Che le informative non fossero affatto generiche, come sostenuto dalla Procura di Milano, era dimostrato dal fatto che i carabinieri, già all’indomani del delitto, andarono a colpo sicuro a cercare Barbone.
Ai magistrati di Brescia, il giudice Salvini ha spiegato come l’appunto redatto a suo tempo dal brigadiere Dario Covolo venne “tirato fuori dalla massa di carte che si trovano negli archivi. Si sapeva già cosa andare a cercare”. Altre testimonianze, raccolte l’anno scorso, hanno confermato come appostamenti e pedinamenti della sezione anti-crimine si fossero incessantemente succeduti già pochi giorni dopo quel tragico 28 maggio 1980.
Alla luce di ciò, la Corte di appello di Brescia ha pertanto assolto il giudice Salvini dall’accusa di diffamazione perché “il fatto non sussiste”, ribaltando la precedente sentenza di condanna e riconoscendo così che la Procura di Milano dal 1979 disponeva già delle informazioni per cui Walter Tobagi era sotto tiro del commando di Marco Barbone.
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