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26/12/24 ore

POESÌ di Rino Mele. Il disamore del giorno



Nel sonno la nostra vita raggiunge una spezzata compiutezza. Poi, a ogni nuova alba ci ritroviamo nel nostro disperante tentativo di tenere insieme ciò che confusamente siamo (nel sonno che si ripete) e ciò che dovremmo essere (nelle regole della veglia).

 

 

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POESÌ di Rino Mele

 

 

Il disamore del giorno 



Tutto inizia quando un bambino vede un altro

più piccolo (il fratello?) al seno della madre (forse una vicina),

e lo invidia.

Adulto, sottrae a chi guarda, al di là del confine, la siepe del

campo, la casa, di cui mura le finestre per impedirgli 

la vita. Il sonno lo attraversiamo leggeri, abbiamo altre

mani, piedi che non ricordiamo

di possedere, ci guida un dio, costringendoci a salire sempre più

in alto, per precipitare. Noi siamo quel sonno

e le immagini che produce: le ferite, le figure, l'ansia

di respirare, ci vediamo morti

e risorti nella bocca che ci prende, ci toglie la pelle, la sputa felice.

Poi, la veglia ci getta, all'alba, in una socialità feroce,

chi è vicino fugge da noi, ce lo ritroviamo

accanto, reciproca estenuante cattura tra estranee figure,

come un gioco

di cui riconosciamo, dopo ogni mossa, l'errore

La legge mostra la colpa (Gide citava San Paolo), siamo la nostra

notte

e il giorno che scompare. Anche l'uomo che sarà portato al patibolo

dorme, e nessun carnefice potrà raggiungerlo tra i dirupi, 

le tenebre in cui s'immemora

in questo suo diverso finire.

In Macedonia, a Palatitza, in un'antica stanza

rettangolare (quanto

importante nella nostra confusa vita la geometria) c'è un'altra

sala, rotonda, e da questo duplice spazio

scavato la fanciulla col serpente sulle ginocchia

aspetta di uscire, venirci incontro, nella gara

con la polvere

di cui il vento la ricopre. La tempesta

s'acqueta nel sonno,

riprende,

e ne raccontiamo l'asprezza, le spine

nel suo ripetuto finire. È allora che ci sembra d'incontrare

il nostro sconosciuto volto. La notte

la riconosci dal digiunare, il corpo diventa puro,

come uno strumento musicale che da se stesso suoni, da suoni

nuovi inseguito,

il viaggio che nel sonno non cessiamo di fare.

 

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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

 


 

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