“Anziché nutrirsi di una placenta che lo avvolgeva protettivamente, a furia di voltarsi e rivoltarsi aveva schiacciato proprio il cuscino che avrebbe dovuto nutrirlo, In medicina si chiama placenta previa”. Sono le informazioni che nella prima pagina del suo Corpo felice, Rizzoli 2018, Dacia Maraini dà al lettore. Un libro affascinante come un enigma sull’indecifrabilità del dolore. Il manifesto è del 1969, Isolina del 1992.
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POESÌ di Rino Mele
Corpo felice
Inizia con la sua fuga bambina, a Kyoto
questo testo scheggiato, la discesa a un Limbo tormentato.
Un inaspettato aborto diventa il confine
che non potrà abbandonare. Perdu è il nome che la strazia,
la mancanza
gridata già nella sua giovinezza letteraria, nell'arsura delle rime
spezzate,
l'urlo non placato, il bianco
della scena di un teatro, maschere ambigue
e l'anamorfosi della scena.
Ora, con questo Corpo felice dialoga con l’immagine svanita che aveva
imparato ad amare, si dirupa
come fosse lei
a essere inseguita da colui che continua a cercare.
Lo vede trasformarsi in un giovane uomo, si legano tra loro, maturano
impossibili intese, come i segmenti di un necessario sillogismo,
per dare pazienza al dolore.
Corpo felice è il racconto della perdita
del figlio ("con cui giocavo
segretamente") costretta in un letto
d'ospedale a non muoversi per non distrarlo dal nascere: poi tutto
all’improvviso si spezza ("cacciavo fuori
tanto sangue"). Nel silenzio chiaro di una surreale scrittura, gli fa da
maestra, gli dice le incertezze
del nostro tempo, il rispetto per l’amore, il coraggio, il buio
della vertigine,
i quadrivi dove c'è sempre
uno sconosciuto dall'aspetto familiare da affrontare.
Il racconto è lieve come il piacere cui il dolore somiglia,
Perdu ormai è tornato e loro due
sanno i sentieri rovesciati, le tenebre.
“Hai parlato di aborto, Anna?” gridava il coro di donne morte
de Il manifesto, enigma e figura di pena. Come la tragica elegia della
sua Isolina: costretta all'aborto,
morta, fatta a pezzi, gettata nell'Adige.
Ma in questo suo Corpo felice, v’è quasi un’azzurra gioia,
ciò che è perduto si ritrova. Trasformando la morte in luoghi del mito,
Dacia Maraini l’allontana dall’orrore,
e, come sul vetro il respiro, cancella l’ostile distanza tra la perdita
irrimediabile e la notturna ripetizione della visione.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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