Fernando Aiuti è stato un immunologo dallo straordinario impegno nella lotta all’Aids. Mercoledì 9 gennaio, due giorni fa, alle 11, è caduto (o si è lasciato cadere) dal quarto piano nel vuoto interno alle rampe delle scale del Policlinico Gemelli. Mi ricorda l’angosciosa fine di Primo Levi, gettatosi dall’alto delle scale della sua casa. Ne scrissi tredici anni dopo, nel mio Il sonno e le vigilie (edizioni Sottotraccia, 2000). 14 versi, quanto quelli di un sonetto. Il testo è intitolato Morirsi, termina così: “L’11 aprile Levi seppelliva (correndogli / incontro) l’orrore, chiudeva tra le dita altre dita”.
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POESÌ di Rino Mele
Suicidio per attraversare un troppo stretto confine
Il doloroso staccarsi del corpo
dalla propria ombra. Incollati alla vita (pure, ne abbiamo paura),
sbalorditi
quando qualcuno ne vola via, l'alto e il basso sono sempre il profondo,
e l'azzurro delle scale
di un ospedale
è lo stesso che vedi
dal tetto di un monte, o d'una cattedrale: restiamo stupefatti
come quando il battello parte,
rimasti
sul molo a guardarne la scia.
Il suicida non vuol finire se stesso ma lo stato d'orrore, il dolore
che lo ha stancato. Ci ritroviamo
accanto al suo corpo
così simile a chi naturalmente
è morto, ne abbiamo disperazione, paura di somigliargli,
cerimoniosamente gli giriamo intorno,
aspettiamo scompaia per poterlo amare nelle cerimonie del lutto, tra gli
amici con misurato pianto, il compianto che ci accusa.
Cos'è la grande esercitazione mai interrotta delle atomiche, i letali
depositi immani (tragedia non riuscita
di un familiare
giudizio universale) se non una maniacale preparazione, il progressivo
avvicinarsi al suicidio
collettivo, mascherato da aggressività verso il nemico con il nostro
stesso viso, un corpo
con due braccia, il sesso di cui c'incuriosiamo, le gambe
stanche di camminare, la voce
con cui ancora barattiamo l'assenza d’amore.
Il suicida non vuol morire, ma passare attraverso
la morte, sa che è un muro, lo immagina
d'acqua, come quello da cui è nato. Figura di suggestiva simmetria,
la fine ha il volto di sua madre,
il primordiale spasimo delle sue cosce, il volto sudato,
ora che lui vuol tornare.
Lontano il padre, la mano sugli occhi per non
vedersi guardare.
Dedalo e Icaro non aspettarono di morire nel labirinto di Creta, scelsero
di volarne via
uno di loro trovò chiuse le strade del cielo, continuò a precipitare.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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