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21/11/24 ore

POESÌ di Rino Mele. Rustedda



“Antropocene” è una parola ideata dal premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen. Antropocene indica la fase in cui il dominio dell’uomo sulla terra s’è fatto sentire nel modo più devastante e cupamente irreversibile. Lewis e Maslin (Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, edizioni Einaudi) dice: “Con la conquista delle Americhe si affermarono il mercantilismo capitalista, il colonialismo, l’industria finanziaria che sosteneva le missioni navali. E la grande disponibilità di materie prime e merci che arrivarono dall’altra sponda dell’Atlantico creò le condizioni adatte per la Rivoluzione industriale”. Prima delle stesse forze apparentemente inarrestabili dell'economia è stata, col suo orrore, la Seconda Guerra Mondiale a rendere veloci e violenti i processi di globalizzazione. Nel commentare il libro, Giuliano Aluffi precisa: “È stata l’ulteriore spinta globalizzatrice post-Seconda Guerra Mondale a portarci al mondo assediato dai gas serra di oggi”. Ma tutto avviene come in un’astrale distanza, la distruzione e lo scempio, la violenza ripetuta e lo sgomento, il nubifragio per chi non ha casa. (il mio paese è tra le radici delle montagne nell'ellisse di un altopiano, il Vallo di Diano, tra Cilento e Lucania).

 

     


 

 

                      POESÌ di Rino Mele

 

Rustedda

Non riusciamo a sostenere le ondate di orrore che non danno pace,

il male che si moltiplica mentre accade

e lo troviamo così vicino da non riuscire a sfuggire l'odore del sangue,

l'urlo della vittima

quando cade.

Fingiamo di vedere 

oltre la nostra miopia sociale, restiamo incollati al peso delle mani: come

non fossero nostre

quando fanno ad altri del male. La guerra

da poco era finita e solchi vuoti segnavano il mio paese, 

vuoti 

come solchi: erano i morti, gli insepolti e della guerra

i dispersi

di cui non si sapeva niente, corpi sottili incapaci di comunicare.

Poi, un giorno,

era ormai il 1947, a una piccola madre che quel suo solo figlio

continuava ad aspettare arrivò una lettera

dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche: per lei era un dolore

pensare quell’infinita pianura

di neve, si mordeva strappandosi le vesti nel capovolto cielo

da cui era impossibile scampare.

Abitava la strada che, come le dita nell'artrosi delle sue mani, saliva

torcendosi verso la Rustedda, le case povere del paese,

il fiume di pietra del Lavinaio.

Dopo questa lettera del figlio ritenuto morto, tutto si stravolse

e arse come a Pasqua

il Risorto. Era inverno, il fuoco strideva nel triangolo del camino e lei,

con movimenti compulsivi, riponeva 

e mostrava la lettera che aveva imparato a memoria

e non aveva letto.

Tutti andarono a farle festa: era tornata a vivere, rideva all'improvviso,

offriva un rosolio più verde

delle ortiche (le fotografie del figlio vestito da soldato avvolte

nel fazzoletto).

La catastrofe della guerra sembrò sciogliersi

in quella stanza fredda, con la finestra

che il vento

improvvisamente apriva. Parlavano i morti nello spezzarsi dei rami nel

fuoco,

c’era un silenzio mai udito e, lontano, il più nascosto pianto.

 


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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

  

 

 

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