Lo sfuggirci del tempo presente è un dramma ineludibile, cui sono sottratti gli alberi, le piante, la felicità inorganica delle pietre, gli animali selvatici: di quelli domestici non so, oppressi dall’infelicità e dal contagio che rende il loro sguardo così simile al nostro. Nel numero del 3 febbraio 2019 de “La lettura” Claudio Magris (inFuturo) scrive: “In una lingua dell’Amazzonia ricordata da Canetti in Massa e potere, l’andare verso il futuro è espresso con lo stesso verbo che indica il procedere all’indietro; si va al buio verso l’ignoto, mentre l’orizzonte è il paesaggio da cui ci si allontana e che dunque si perde, si allarga, diventa più vasto e lontano”.
Infine, il mito d’Issione, citato alla fine dei miei versi. Per aver tentato di violare Era, la sposa di Zeus (ma era sola una nuvola somigliante che lui era riuscito a sedurre) fu condannato a girare perennemente legato con dei serpenti a una ruota. Nel quarto libro delle Metamorfosicosì Ovidio (la traduzione è di Ludovica Koch) scrive di quell’interminabile pena: “Rotea Issione inseguendo e fuggendo se stesso”.
POESÍ di Rino Mele
L'illusoria finzione del presente
Lo sgomento di nascere, il trauma d'essere
sradicati da quell'oscuro consistere, sottratti, tratti a forza da noi stessi,
nell'improvviso ritrovarci
separati, non più protetti dal lago arcano
delle tenebre da cui siamo stati appena gettati fuori,
in un'altra pelle, la nostra,
a spiare,
a vederci guardare,
sgomenti. Non più protetti, ma assediati,
poi lentamente crescendo, in disperati duelli costretti a
dare risposte - la lingua
come un fascio di corde - e tirare ciò che ci tira, urlare
i suoni che danno il respiro e, a volte,
soffocano.
Abbandonata per sempre la condizione di un eterno
presente,
gettati nello scandalo del tempo, la colpa
e il continuo morire
che ci deforma, risospinge a ogni istante nel passato, e addolora.
Un vivere da acrobati tirati indietro, costretti
a cadere nell'istante già vissuto: il tempo s'è rotto nel pianto
appena siamo nati
come il cibo, cadendo di mano all'ansia dell'affamato,
si disperde.
Dalle finestre degli occhi continuiamo a spiare dove non siamo,
a chiedere alle ombre
di nominare il nostro nome (indicarci le ferite, il volto).
Aggrappati ad esse
le tiriamo nell’abisso, gridando
la nostra mancanza. Il respiro ferito, l'intermittenza dell'asma, l'illimite
vuoto
che chiamiamo amore. Il tempo è un grammaticale
enigma,
l'inganno del presente
cui ci affidiamo perché ne esiste la forma verbale.
Il presente
dell'indicativo sostituisce un feroce participio presente, vissuto da altri
che non sappiamo,
al quale restiamo inchiodati, mentre si muore. È la
ruota d'Issione, sembra andare avanti ma ripete il soffrire che la spinge.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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