Il brano citato (“La morte si china sulla scacchiera e rimette a posto i pezzi. Il Cavaliere guarda oltre la morte, verso il viottolo. Mia sta giusto salendo sul carrozzone, Jof prende il cavallo per il morso e lo conduce verso il sentiero. La morte, presa com’è dalla ricostruzione del gioco, non s’accorge di nulla”) è tratto dal testo di Ingmar Bergman, per Il settimo sigillo, Edizioni Iperborea, 1999, un film di altissimo valore (1957). Sullo sfondo, le parole irrinunciabili dell’Apocalisse: “E quando aprì il settimo sigillo, in cielo fu silenzio. Ma solo per poco. E vidi i sette angeli che stanno dinanzi a Dio, e a loro furono date sette trombe. E venne un altro angelo, e si avvicinò all’altare, si fermò” (qui, nella mia traduzione dell’Apocalissedi Giovanni, Edizioni 10/17, 2002).
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POESÌ di Rino Mele
La madre e la morte
L'anima delle cose ha la pazienza degli insetti
sotto il peso della polvere. Gli animali - non hanno mani, gli occhi
aperti come stanze
in cui ognuno può entrare - non possono prendere
e conservare: le cose sono
il paesaggio che li sovrasta del grande armadio
del mondo (quello con lo specchio
davanti al quale mia madre
provava un vecchio vestito viola chiaro, sembrava grigio,
con piccole losanghe
nere e bianche, aveva la febbre, le sue mani ardevano
e tutto brucia ancora).
Dietro ogni casa, anche negli appartamenti metropolitani, c’è un orto
che non si vede,
un poco di terra su cui ognuno di noi, bambino, ha scavato
con la zappetta
dal manico rosso (verde quello del rastrello), solo, coi propri fantasmi
e la voce della madre
che lo chiama piano, se è viva, urlando dolcemente
se a lui s’è nascosta. La morte
si china sulla scacchiera e rimette a posto i pezzi. Il Cavaliere
guarda oltre, verso il viottolo: è una scena
del Settimo sigillo
di Bergman. C’è lo strazio dell’Apocalisse,
che non si può raccontare: puoi immergerti o scappare ma, dovunque, ti
raggiunge quel suono, se una volta appare.
Degli insetti che ci stanno accanto (per strada, perfino in
ascensore, d’estate su un vuoto balcone) non ci accorgiamo.
Come se non fossimo ancora nati
non abbiamo occhi per chi ci sta intorno. Terrorizzati
d’essere guardati, allontaniamo lo sguardo
da chi c’incontra: sorridendo, nelle siepi di frammentati discorsi,
nel fitto parlare che è un pietoso
predisporci alla fuga, sostituiamo
con un pronome il nostro volto che non vediamo. Moriamo nel vento
freddo, tra le mani le dita spezzate di nostro padre.
La madre
non guarda - nello specchio - alle sue spalle, non cerca i figli, sa che
come lei sono morti, l’immagine
si scioglie azzurra nell’aria, ne trema, s’annera nella notte.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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