La sera del 18 febbraio sono tornato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nella sala dov'è esposto il famosissimo marmo del Supplizio di Dirce, una scultura alta quattro metri che racconta un mito dal doppio profilo, quello di Antiope vittima innocente e della regina Dirce (ora è lei a essere torturata). Un intrico parentale: il re di Tebe caccia via la figlia resa madre dalla divina lussuria di Giove, la ragazza si rifugia dallo zio Lico in Beozia, incorre nella gelosia della regina Dirce, da lei viene tormentata e i figli che ha avuto dal dio esposti sul Monte Citerone: sono Anfione e Zeto che vendicheranno la madre legando Dirce alle corna di un toro perché ne faccia strazio. Ero andato al Museo per salutare Simona Cavaliere e assistere allo spettacolo di danze barocche cui partecipava col gruppo fiorentino "La stravaganza" (e l'Ensamble barocco dell'Accademia Reale diretta da Giovanni Borrelli). L'armonia seduttiva degli sguardi dei danzatori e la fascinosa simmetria dei loro passi leggeri, sullo sfondo il bianco del marmo nell'orrore delle storie sovrapposte di Antiope e Dirce.
POESÌ di Rino Mele
Grammatica della violenza
Anfione e Zeto sembrano volare, salgono il sentiero, legano
alle corna del toro Dirce perché ne faccia strame: la scultura è un verticale
teatro, chi guarda
sale la scala di una tortura non terminata, ferma nella pausa
che sempre precede il pugnale. La violenza ha una sua grammatica: la folla
che sta a guardare
ne sente il ritmo rovinoso, chiede che l'azione mentre precipita
si fermi, per vederla ricominciare
e come un canto rovesciato torni verso l'inizio, il singulto
di un respiro sbarrato, prima di soffocare. Dirce
continua a gridare, il marmo si piega in quell'urlo, sembra carne,
le corde vi lasciano il segno, e non smette
d'urlare. La madre vendicata
assiste muta (o è lontana) sente lo strazio che verrà, ne prevede l'esito, spia
la vendetta dei figli.
Sono all'origine di quegli oscuri corridoi dell'inganno Giove
che seduce Antiope, il padre di lei, Nitteo, il re che la caccia impaurito
da una nascita
e il fratello del padre, Lico che ne fa una schiava, mentre Dirce
gelosa della bellezza
la fa murare. La colpa è tradotta
in dolore, e riproduce lo strazio. I giovani con corde di pietra,
il toro che li sopravanza mentre ne piegano le corna per legarvi il corpo
tenero della donna
che urla.
I personaggi dei miti hanno sul volto la cenere
dei morti, costringono chi guarda a farsi
cieco, seguire Edipo appena nato, portato a testa in giù, appeso
a una canna, sul Monte Citerone, espulso
dalla memoria, affidato alle bestie della notte. Anfione
e Zeto furono esposti come fece Laio con Edipo. Il mito
ritorna alla nascita rifiutata.
C'è un luogo
da cui qualcuno non visto guarda, una sorta di coro nascosto, maternale
lago distrutto, scomposto, ucciso.
Dei miti conosciamo
la fonte letteraria, i versi ben connessi delle tragedie, le maschere
levigate della scena, dietro di esse non ci sono parole
se non soffocate, i gridi
impediti dalla terra, premuta sulla bocca.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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