I settantadue versi che oggi pubblico non li ho (come di solito) appena scritti ma li traggo dal mio libro Costruzione della rima, edizioni Plecticà, del 2010. Il tema è il labirinto, diventato sempre più il segno della nostra immatura coscienza. Nei suoi corridoi ossessivi rinchiudiamo il nostro vicino, l’ombra che urta contro il nostro confine, le paure cui non sappiamo dare un nome. E ci scordiamo che, al centro di questo luogo senza uscite, siamo noi stessi - Dedalo e Minotauro insieme - ignari della nostra infera condizione. Sullo sfondo, la disperante figura paterna di Minosse.
C’è una figura del luminoso saggio di Lacan, Del barocco, del maggio ’73, che mi è tornata imperiosa alla mente quando stamattina all’improvviso ho saputo - come una deflagrazione - che Rubina Giorgi era morta. Una figura, quella evocata dal saggio che ho citato, di separatezza e dispersione, in cui Lacan parla “dell’inerzia del linguaggio, cioè dell’idea della catena, in altri termini dei pezzetti di spago, pezzetti di spago che formano dei cerchi, i quali, non si sa troppo bene come, si congiungono gli uni con gli altri”. Una vita di ossessiva lucente scrittura quella di Rubina, che ho conosciuto tantissimi anni fa, quando insegnava Filosofia del linguaggio, e diventammo così subitamente amici. Nel 1999, poi, scrissi sedici versi per lei, che pubblicai l’anno dopo nel mio Il sonno e le vigilie, edizioni Sottotraccia, e con essi termino altri sedici versi appena scritti, oggi, ancora per lei, nell’ombra della frammentazione che il linguaggio e la morte, già nelle parole di Lacan, evocano. (... segui>>)
È la mia traduzione, di queste ore, di cento versi del Libro I delle Metamorfosidi Ovidio, vv. 452-556. Un poema terribile che guarda con occhi mai stanchi l’enigma delle cose e che, alla fine, nel Libro XV affida a Pitagora di rappresentare il molto affanno in cui perdiamo il nostro volto. Ovidio terminò di scriverlo nell’8 d.C. l’anno in cui la sua vita si spezza, si trasforma. Condannato da Augusto all’esilio di Tomi, sul Mar Nero, l’anno successivo lasciò Roma, e morì lontano da se stesso.
Martedì 25 giugno la Sezione Letteratura, curata da Silvio Perrella, di Napoli Teatro Festival ha realizzato un incontro sulla mia poesia in uno spazio seducente, il Chiostro di Santa Caterina a Formiello, una bella chiesa napoletana tra il Quattrocento - di cui conserva ancora alcuni sapienti stilemi - e il glorioso Cinquecento appena iniziato, nel progetto di Antonio Fiorentino della Cava. A parlare della mia poesia, Silvio Perrella ha invitato due interpreti della cultura italiana più viva, il filosofo Aldo Masullo e il regista Mario Martone. Pensavo di terminare il mio intervento con la lettura dei dieci versi che propongo oggi ad Agenzia Radicale, e che pubblicai nel mio Il silenzio nudodel 2012 in un chiaro libro voluto da Eugenio De Signoribus per le edizioni maceratesi de "La Luna", ma il luminoso intervento di Masullo e la forza evocativa di quello di Martone nel ricordare l'aspra ferma tempesta di Leopardi mi hanno spinto a sostituire i versi sulla colpa del Padre con un altro mio testo, Oltre la siepe il mondo non c’era più, daI dolorosi discorsi, edizioni Sottotraccia, 2003. Quei pochi versi sulla colpa, condizione così inestricabilmente vicina alla scrittura, sono però rimasti come un pegno che, a distanza di pochissimi giorni, ora assolvo.
La devastata desolazione politica in cui viviamo, l’assenza di dignità e di sensi di colpa, ci costringe a rivolgersi alle grandi figure della storia, incapaci di prenderne esempio ma almeno di avere nostalgia della loro forza morale. Questi miei versi scritti alla fine del 2017, dedicati all’Abate Gian Francesco Conforti, teologo e storico, razionale interprete della Repubblica Napoletana del 1799, non sono stati mai pubblicati in un libro ma, per volontà del sindaco Francesco Gismondi, gigantografati e posti il 1 gennaio 2018, su un grande muro all’ingresso di Calvanico, il paese in cui Gian Francesco Conforti era nato il 7 gennaio 1743.(… segue>)
Duecento anni fa, nel 1819, a Recanati, a soli ventun anni Giacomo Leopardi scrisse gli straordinari quindici versi (uno in più di un sonetto) de L’infinito.
Nel mio testo i primi venti versi (già col titolo Oltre la siepe il mondo non c’era più) li avevo pubblicati nei miei I dolorosi discorsi, edizioni Sottotraccia 2003. Gli ultimi venti versi (che iniziano con “Seduto sul fondo delle acque nel passato remoto del mare”) li ho scritti oggi, in queste ore. Alla fine di essi, una citazione molto bella dallo Zibaldonee che sembra alludere all’ansia di Leopardi di percepire sensazioni che s’aprano sull’infinito, e porta la data del 3 ottobre del 1821: “Come un filare d’alberi dove la vista si perda, così per la stessa ragione è piacevole una fuga di camere, o di case, cioè una strada lunghissima e drittissima, e composta anche di case uguali, perché allora il piacere è prodotto dall’ampiezza della sensazione; laddove se le case sono di diversa forma, altezza ec. il piacere della varietà sminuzzando la sensazione, e trattenendola sui particolari, ne distrugge la vastità”. (...segue>)
Quando siamo chiamati a votare ci troviamo spesso in una condizione ambigua, sentiamo - lieve o profondo - un certo entusiasmo per l’aria di festa popolare che accompagna quel rito necessario e, sempre, un doloroso disagio, come se quel votare non corrispondesse a una reale partecipazione per trasformare, insieme, la vita. Quasi fosse, insieme, festa e inganno. (… segue>)
Nella notte di venerdì 17 maggio, alle 2.20, nell’ospedale "Vecchio Pellegrini" di Napoli, era stato appena portato al Pronto Soccorso un giovane ferito alle gambe, che l'anno scorso aveva partecipato all'aggressione di un quindicenne e per la quale era stato, a suo tempo, arrestato. Si chiama Vincenzo Rossi che una ragazza e un ragazzo (leggermente feriti) hanno trasportato con una Fiat, da via Toledo, poi subito allontanatisi. A questo punto la scena si rovescia, diventa orrore, trasforma l'ospedale nel delirio che gli si oppone. Mentre Rossi sta ricevendo le prime cure, entra in scena l'incubo, tra i malati appare un personaggio, coperto da un casco integrale "scavalca la sbarra di protezione, entra, percorre qualche metro e spara più volte con una pistola calibro 9" (dal "Corriere della Sera" di oggi, sabato 18).
In uno dei ventisei dialoghi sul mito - Dialoghi di Leucò, 1947 - di Cesare Pavese, un'amadriade e un satiro parlano sullo sfondo di un diluvio che tutto ha sommerso, il satiro parlando dei mortali, chiusi nelle pareti d'acqua, dice: "Nessun mortale sa capire che muore, e capire la morte". (... segue>)
Nei versi che scrivo per questa rubrica il momento della scrittura coincide con il tempo della pubblicazione (e, quindi, della lettura). Rarissime le eccezioni, oggi è la seconda volta che pubblico su Agenzia radicale, miei versi già editi. Sono quelli con cui termina Il corpo di Moro, del 2001, edizioni 10/17 (primo premio DeltaPoesia 2002), riedito quest'anno dalle edizioni Oédipus, e arricchito, reso trasparente dall'analisi critica di Niva Lorenzini. (… segue>)
Nel mito, Persefone (Proserpina per i Romani) è rapita dallo zio Ade (Dite) e portata a forza nel suo regno sotterraneo - l'Ade appunto - di cui diventa regina. Ovidio, nel V libro delle Metamorfosiracconta la sbigottita angoscia della fanciulla rapita mentre, a gara con le compagne, raccoglieva fiori, ”conlecti flores tunicis cecidere remssis”. Il tonante Zeus (Giove), sollecitato dal dolore straziante della madre Demetra (Cerere), è costretto a rivendicare la propria figlia, e a costringere suo fratello Ade a restituirla almeno per pochi mesi, ogni anno. Quando Persefone ritornerà nel tripudio della terra materna, è la primavera a tornare.( … segue>)
Sono 350 i cristiani uccisi nel Sri Lanka, il 21 aprile, la mattina del giorno di Pasqua.Riusciamo appena a parlarne,l’orrore si riflette e moltiplica in altri lividi richiami della storia. È un barocco teatro catoptrico la nostra quotidiana esperienza del tempo. Riusciamo solo a esibire l’dentificazione con il giusto sdegno delle vittime, ma abbiamo dentro di noi, ben dissimulati, angoli bui, inattraversabili, una violenza feroce, vile, che dilazioniamo, trasformiamo, mascheriamo e rendiamo accettabile al vicino. ( … segue>)